La 'Terra finale della felicità' definì una volta Joseph Campbell quel lembo di vita dimenticato, poi bramato ed emulato, che è il rapporto madre/figlio nella primordiale fase di 'partecipazione mistica'.
L'ombra di questa dualità sacra, di questa simbiosi catarchica, si proietta, allungata e tremolante, sugli ostici muri che recintano l'accecante nucleo dell'ultimo film di Kim Ki Duk, Leone d'Oro al Festival del cinema di Venezia: la 'Pietà'.
Il regista coreano mette lo spettatore davanti a pareti spesse e grigie e a una scalata pesante e pericolosa, offrendo solo una sottilissima fune di purezza a cui aggrapparsi per non precipitare nel paludoso terreno della vendetta, dell'odio, della violenza inumana e ingiustificata. Occhi, pancia e cuore a volte possono non bastare.
La crudeltà di Kang-do, protagonista della pellicola, è allo stesso tempo principio e fine, causa ed effetto, di una società di con-dannati a bruciare nel rogo della (oramai consolidata) inquisizione capitalistica. L'uomo-diavolo di Kim Ki Duk è un bambino mai vissuto, una dualità storpiata, recisa, è il bisogno dimenticato.
Il denaro è vita e morte, sussurra la Madre al Figlio, in mezzo c'è l'abbandono che diventa mutilazione, masturbazione, perversione, stupro. E' vendetta bramata, temuta e, infine, compatita. Non è un film perfetto, quello che ha vinto Venezia, negli strati di cementificate pulsioni (tanti quanti i tessuti che ricoprono il piccolo e bianco corpo della Madre) che gravano sulle vecchie fondamenta di quel palazzo della morale già troppe volte esplorato, picconato dalle braccia del cinema.
Ma, mentre il grigio di un'alba d'asfalto assorbe, distruggendolo, il rosso dell'uomo, e lo schermo diventa nero, braccia mutilate non possono fare altro che cingere il proprio corpo alla ricerca di 'Pietà'.