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23/11/24 ore

A Bologna, il trentesimo Festival del Cinema Ritrovato celebra Il Mito Assoluto: Marlon Brando



di Vincenzo Basile

 

Si tratta dell’appuntamento al quale le più importanti cineteche del mondo presentano i restauri di capolavori gravemente danneggiati dal tempo o dall’usura, mutilati dalla Censura o considerati dispersi o introvabili. Tutti hanno in comune un elevatissimo valore artistico o documentarioVarie sono le sezioni tematiche che lo compongono, organizzate per epoche, nazionalità e genere.

 

Quest’anno al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna opere di Chaplin, Buster Keaton, Harold Lloyd e dei Lumierè ma la più attesa delle retrospettive è stata quella su Marlon Brando, l’uomo che Elia Kazan definì “l’attore che più si avvicina al genio” e il resto degli addetti ai lavori, all’unanimità, “il più grande attore del ‘900”.

 

A raccontare la leggenda sono intervenuti tra gli altri Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro a rivelare aspetti sconosciuti riguardanti le loro personali esperienze con il Divo. “Come protagonista di Ultimo Tango a Parigi avevo pensato a Jean Louis Triétignant ma lui, quasi in lacrime, rifiutò perché non se la sentiva di girare le scene di un film che riteneva troppo osé. Allora girai l’offerta ad Alain Delon ma lui pretese di entrare nel film anche come produttore e non potevo certo lasciargli parte della responsabilità del progetto senza rischiare di snaturarlo.

 

Mi rivolsi allora a Jean Paul Belmondo che però quasi mi aggredì perché riteneva pornografico il progetto. Anche Dominique Sanda rifiutò la parte, che fu poi di Maria Schneider, perché incinta. Rientrai dunque deluso e amareggiato a Roma dove qualche sera dopo, in Piazza del Popolo a Roma, un amico del mio staff buttò lì per caso, il nome di Brando. Io non avevo neanche lontanamente pensato a lui perché all’epoca (stava per uscire nelle sale Il Padrino di F.F. Coppola) era una leggenda così immensa da reputarlo inarrivabile.

 

Invece poche settimane dopo, lo incontrai a Parigi all’Hotel Raphael, che era quello prediletto da Rossellini, e nel mio misero inglese gli raccontai in un minuto il mio soggetto. Lui non smetteva di fissare il pavimento e quando gli chiesi di guardarmi negli occhi mi rispose che per farlo aspettava, a causa del mio enorme imbarazzo, che smettessi di tamburellare per terra con il mio stivaletto.

 

 

 

Questa sua uscita ruppe definitivamente il ghiaccio e mi comunicò che accettava di fare il mio film. Passammo insieme alcuni giorni a Parigi dove visitando con lui una retrospettiva di Francis Bacon, individuai nella violenza che esprimevano quelle sue opere il carattere che volevo dare alla storia e al mio personaggio e su quella suggestione ci capimmo meglio di quanto avremmo potuto con tanti discorsi teorici e tecnici sullo stile da dare al film. Seguì un mio viaggio a Los Angeles, ospite nella sua villa di Mulholland Drive, dove avevamo come vicino di casa Jack Nicholson e dove per giorni interi facemmo di tutto fuorché parlare del film.”

 

 

Vittorio Storaro, a Bologna per parlare della versione integrale (Redux) di Apocalipse Now, che gli fruttò il suo primo Oscar: “Avevo appena finito di girare Novecento, con Bertolucci, che Coppola, a cui il film era piaciuto molto, mi convocò per affidarmi la fotografia del suo; io però fui subito poco interessato al progetto. La guerra in Vietnam mi sembrava un soggetto lontanissimo da quelli che erano i miei interessi all’epoca, tutti focalizzati sulle impercettibili variazioni dei sentimenti; con registi quali appunto Bertolucci, Montaldo e Ronconi, con i quali condividevamo  a quel tempo un approfondimento delle sfumature dell’animo umano.

 

Ma Francis pur di convincermi, mi esortò a leggere Cuore di Tenebra di Conrad, che era appunto il romanzo a cui il film si ispirava. E quella lettura fu una rivelazione. Capì che il Vietnam era un pretesto per mettere in scena un affresco potente sull’essenza della Sopraffazione; su cosa succede quando una civiltà si arroga il diritto di eliminarne un’altra. Ci trasferimmo tutti nelle Filippine dove l’ambientazione era quella più prossima alla natura Vietnamita. Ma il clima di ostracismo da parte del governo americano, ostile alla rappresentazione della guerra che Coppola avrebbe dato, creò crescenti difficoltà.

 

Era inaccettabile l’idea di mostrare l’eccidio di tanti civili  innocenti  da parte dei “bravi ragazzi americani” così come viene proposto in una delle scene più celebri del film. Il momento più critico si presentò quando si trattò di decidere l’inquadratura che avrebbe introdotto Kurtz, il personaggio interpretato da Marlon, una presenza fino allora invisibile ma tangibile sin dall’inizio.

 

Trascorsero giorni di interminabili discussioni in cui Coppola e Brando non riuscivano a trovare una soluzione ed eravamo  giunti a un punto molto vicino alla rottura. C’era il concreto rischio che il film non trovasse il suo finale. Riuscì infine a proporre a Brando la scelta di uno svelamento lento, fatto di progressive entrate e uscite da un debole raggio di luce che illuminava solo una parte del suo viso. Ricomponendo in quel modo, pezzo dopo pezzo, l’immagine dell’uomo che impersonava l’Orrore. Lui accettò e il film poté finalmente avviarsi conclusione”.

 

Ma con i miti, si sa, le sorprese sono sempre in agguato.

 

L’ultimo giorno di Festival arriva “Listen to me Marlon”: centinaia di ore di materiale audio privato registrato da Brando nell’arco di cinque decenni setacciate e montate da Stevan Riley. Il risultato è un documentario che dipinge un autoritratto intimo, in prima persona, ed è quanto di più rivelatore possa esistere, raccontato dalla voce dello stesso Brando: la madre alcolista che lo aveva abbandonato (“Mi piaceva tanto il suo alito che sapeva di alcol”), il padre che non lo rispettava  (“in lui non c’era molto amore”), le grandi speranze di una giovinezza difficile (“Quando arrivai a New York la mia vita era piena di buchi come i miei calzini”), Stella Adler, l’insegnante di recitazione e madre putativa che lo aveva salvato (“inventati uno stile che non sia mai stato tentato”), il dongiovannismo (“oltre un certo punto il pene ha le sue priorità”) e via discorrendo.

 

In chiusura del biopic è sorprendentemente lo stesso Brando, a contraddire Storaro, rivendicando l’invenzione di quelle inquadrature così caratterizzanti del suo carisma da rendere indimenticabile l’epilogo di Apocalypse Now.

 

“This is (temporarily) The End”.

 

 


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