di Vincenzo Basile
Ha fatto un certo scalpore l’affondo del direttore del Museo del Cinema di Torino e direttore del Festival di Venezia, Alberto Barbera, raccolto l’altro ieri da La Stampa. «Mi rendo perfettamente conto che Torino e Venezia hanno pubblici diversi. Questo è un festival metropolitano in cui è importante che la gente vada al cinema ma 200 titoli a mio parere sono davvero troppi, rischiano di creare un’over-offerta».
«Personalmente penso che i titoli possano diminuire, come abbiamo fatto a Venezia dove ne abbiamo proposti appena 50. Credo che la quantità mal si concili con un’esigenza di rigore. Se riduci il numero dei film, alzi la qualità». Difficile dargli torto.
Al Festival in corso infatti nessuno ha ancora inneggiato al Capolavoro ma anche se non dovesse accadere fino alla fine, un bel po’ di opere meritorie, di valore stanno passando comunque sotto la Mole.
Sede permanente del Museo Nazionale del Cinema e temporanea (fino al 29 novembre), di una ricca e interessante Mostra del Cinema Neorealista.
La Felicità è un Sistema Complesso
“Ma dde ché” direbbe forse Valerio Mastandrea, se potesse liberamente recensire questa sua ultima fatica.
Il suo personaggio, Enrico, si propone, esplicitamente di migliorare la classe dirigente italiana, assolutamente inadeguata, umanamente e tecnicamente, a gestire la realtà produttiva italiana.
Ma così operando, il regista e sceneggiatore Zanasi dice o meglio fa dire, ciò che cinematograficamente assolutamente non si deve e non fa, ciò che in effetti è da attendersi dal suo intento dichiarato: raccontarne lo sviluppo.
La storia: Filippo e Camilla si ritrovano molto giovani orfani dei genitori, imprenditori scomparsi per un incidente. Ereditano un cospicuo impero economico ma il loro idealismo, dovuto principalmente alla giovane età ed educazione sentimentale, li muove verso scelte economicamente inopportune, per la loro azienda. Il conseguente contrasto con il pragmatismo dei dirigenti produrrà in loro una mutazione che, anche attraverso l’intervento di Enrico li condurrà all’acquisizione del pensare adulto e il manager stesso, all’inizio rigido e in realtà senza scrupoli, approderà a una più profonda umanità.
L’intero processo però non si svolge e sviluppa all’interno e attraverso la narrazione per immagini ma è prodotto a intervalli più o meno regolari dai personaggi e dalle situazioni che si succedono, prive della necessaria consequenzialità. Un po’ alla maniera dei cantastorie, quando scorrono, commentandoli, i quadri di cui si compone la sequenza della loro narrazione.
Ed è un vero peccato perché l’idea iniziale di un’analisi critica del valore della classe dirigente è lodevole ma gradualmente si dissolve in un racconto frammentato, scandito da scene di raccordo vuote e pretestuose. Tutto ciò nonostante gli apprezzabili abbellimenti musicali che accompagnano tali passaggi. Se questo è un film…altro che complessità! Con buona pace di Enrico-Mastandrea.
Lady in the van, già pièce tetrale (autobiografica) di Alan Bennet trasposta dall’autore per il cinema, vede Maggie Smith nei panni di Miss Shephard, una donna anziana ed eccentrica che vive in un furgone. Quando arriva a parcheggiare in una tranquilla strada residenziale, inizialmente la sua presenza porta scompiglio presso gli abitanti delle case circostanti. Presto però, tra la donna e i suoi vicini, tra i quali lo stesso Bennett, si instaurerà un legame particolare e pieno d'affetto.
La donna finirà col vivere nel vialetto del regista per i successivi 15 anni. Grande successo in teatro non può che affascinare in questa versione per il cinema. Testo intelligente , ricco di humor nel prendere in giro certo provincialismo Londinese e più o meno tutti i vizietti della classe media inglese. La protagonista da, come di consueto, la prova eccellente di cui è capace, mostrando la completa remissione della tragedia che l’aveva sfiorata durante le riprese dell’ultimo Harry Potter (…and the Order of the Phoenix).
Forse la cosa migliore di prima questa settimana torinese.
Lo Scambio del palermitano (di ascendenza albanese), Salvo Cuccia si rivela un thriller di “stampo mafioso” piuttosto intrigante. Personaggi foschi capaci di una violenza fredda quanto feroce, un’ambiguità narrativa diretta a verso un finale che non si lascia mai afferrare.
La prima affermazione di rilievo di questo regista risale al 2005, quando il suo documentario Détour De Seta, sulla figura del grande documentarista Vittorio, venne presentato e sostenuto al Tribeca Film Festival di New York da Martin Scorsese ”Un documentario straordinario e sorprendente”.
Seguirà il documentario Summer ’82 when Zappa came to Sicily, coprodotto dalla Zappa Family Trust e approdato, molto ben accolto, a Venezia 2013. Questo è il suo primo lungometraggio di finzione e non si può negare che lasci ben sperare.
Da una Russia senza amore arriva invece Under Electric Clouds, di Aleksey German. Figlio del grande regista e sceneggiatore Aleksei Yuryevich German e nipote dell’altrettanto grande scrittore Yuri German, sconta a sue spese l’illustre ascendenza.
Pur avendo già riscosso il Leone d’Argento per la fotografia all’ultimo Festival di Berlino, con questo film non ancora distribuito in Italia, non riesce però a raggiungere le vette paterne, pur trattandosi un film indubbiamente importante.
A un secolo dalla Rivoluzione di Ottobre, della Russia post apocalittica del 2017, rimangono solo le rovine di un passato a fronteggiare un futuro tutto da inventare. Personaggi di ogni sorta si sfiorano in una terra di nessuno devastata dal macabro connubio capitalismo-globalizzazione. Un giovane studente si chiede: "chi siamo? Chi sono? Tutto è nel caos".
In sette episodi Alexey German mostra la fine del senso e dello scopo dell’Arte, l’inutilità in una tale realtà, del ruolo degli intellettuali e degli artisti e la disumanizzazione che ne deriva a vantaggio dell’unica etica superstite: quella del profitto.
Pur riferendosi alla specificità storica, economica e culturale Russa di ieri e di oggi, non si può negare che quel processo sia più o meno sovrapponibile e ben riconoscibile nel resto del mondo globalizzato. Fin qui dunque, poco o nulla da obiettare. Nonostante la grande raffinatezza formale e narrativa è però richiesto uno sforzo forse eccessivo di partecipazione e una capacità di accettazione che non sempre si è disposti a concedere.
Film buffs only!
Di ritorno da una lezione, un professore di filologia è sottoposto a un interrogatorio da parte della moglie, che diffida del suo approccio pedagogico, della sua Accademia delle Musela quale, composta da un gruppo internazionale di allieve, dovrebbe concorrere a rigenerare il mondo attraverso la poesia. Ben presto questa operazione innesca un carosello di scambi interpersonali dominati dalla parola e dal desiderio ma ben gestite dall’abilità del docente di mantenere la posizione che si è data all’interno del simposio.
Raramente un docu-fiction o film documentario che dir si voglia, riesce a brillare in entrambe le sue componenti strutturali. Passioni alte e basse, filosofia, linguistica, poesia delle relazioni, testa, cervello e cuore mai così dilaganti, nel misurarsi e interagire. “Invece che a una messa in scena si assiste a una messa in situazione”, afferma in conferenza stampa il regista spagnolo José Luis Guerin.
Un modo inedito di far cinema, dove la fiction produce il realismo poetico del documentario e viceversa. Tra gli attori, tutti non professionisti ma assolutamente convincenti, campeggia Raffaele Pinto, docente di Filologia Italiana all’Università di Barcellona.
- Torino Film Festival 2015. Duecento pellicole, una notte Horror e Le cose che verranno di V.B.