Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2015, il film di Marco Bellocchio “Sangue del mio sangue”, pur suscitando qualche perplessità da parte del pubblico e della critica, si è aggiudicato il Premio FRIPRESCI.
Come ha spiegato lo stesso regista in diverse interviste, il film è scaturito da vari input nel corso di circa sei anni in cui, lavorando insieme ad un gruppo di giovani in un laboratorio da lui diretto a Bobbio, cercava una location per una storia centrata sulla figura di una suora, molto simile alla manzoniana monaca di Monza.
La scoperta casuale delle antiche prigioni di Bobbio, gli sembrò allora il luogo ideale per raccontare la storia seicentesca di suor Benedetta (Lidiya Liberman) che dopo aver sedotto il suo confessore, tenta di conquistare anche il suo gemello, Federico (Pier Giorgio Bellocchio), uomo d’armi determinato a salvare l’onore di famiglia ottenendo la sepoltura in terra consacrata del fratello, morto suicida. Per far ciò occorre una confessione da parte di Benedetta del suo patto col diavolo, per poter scagionare il prete costretto a peccare contro la sua volontà. Torturata dal clero che con mezzi violenti cerca inutilmente di ottenere una confessione, ella viene murata viva nel carcere dell’antico convento di Santa Chiara.
Un improvviso salto temporale riporta lo spettatore all'Italia di oggi, in particolare alle piccole città come Bobbio che le nuove tecnologie e la globalizzazione stanno cancellando. Il Federico del passato, vile ed ipocrita, si è trasformato ora in un intrallazzatore moderno (di nuovo P. G. Bellocchio), falso ispettore ministeriale che cerca di favorire l’acquisto delle antiche prigioni del convento da parte di un affarista russo. A lui si oppone una sorta di vampiro moderno (R. Herlitzka), un conte che gestisce il suo potere di notte tessendo in segreto le sue trame, nascosto nell’antico convento, insieme ad un “comitato cittadino” che regola la vita di Bobbio, simbolo della vecchia Italia clientelare che teme di perdere i suoi privilegi con l’avanzata dei nuovi arraffatori globalizzati.
Film davvero complesso, con tanti personaggi del passato e del presente (oltre a quelli principali già citati), come le sorelle Perletti, due zitelle desiderose di amplessi amorosi (A. Rorhwacher, F. Fracassi), il pazzo del villaggio (F. Timi), il dentista amico del conte (T. Bertorelli) e il popolo dei falsi invalidi ed evasori fiscali che ha improvvisi attacchi di panico di fronte ai probabili controlli dell’ ispettore.
Non è facile per lo spettatore destreggiarsi tra il passato e un presente in cui al potere ecclesiastico di un tempo si sostituisce quello vampiresco dei nuovi corrotti e corruttori locali e internazionali. Il messaggio sotteso arriva comunque allo spettatore, anche se con difficoltà: ogni epoca ha il “suo particolare oscurantismo” che cerca di distruggere la libertà, tema ricorrente nei film di Bellocchio, insieme alla lotta contro tutte le ipocrisie, le paure, le repressioni sessuali, i condizionamenti.
Dalle interviste rilasciate, a quanto pare egli non intende attaccare la Chiesa cattolica attuale che grazie a Papa Francesco appare in una fase di trasformazione epocale, bensì quella del passato. Nel film egli ha cercato piuttosto di metterne in rilievo caratteristiche ed obiettivi e pertanto ha affermato: "La libertà è lo spirito di questo film. Non mi interessava stabilire connessioni rigide tra presente e passato. Il mio non è un film all’americana, dove tutto è razionalistico e consequenziale….Benedetta è l'immagine di una bella libertà che non vuole arrendersi". E in effetti il film si conclude con l’immagine simbolica di Benedetta che esce dalla sua prigione dopo tanti anni, non invecchiata e debilitata dalla sofferenza, ma risplendente di gioventù e bellezza.
Un film che suscita molte discussioni e che si avvale di bravi attori, della sceneggiatura di Marco Bellocchio, della colonna sonora di Carlo Crivelli, della fotografia di Daniele Ciprì.
Giovanna D’Arbitrio