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05/12/25 ore

La natura ‘duale’ dell’Italia


  • Luigi O. Rintallo

Su  invito di Regina Wynn, segretaria della Cheltenham Italian Society, il 2 gennaio 2024 Luigi O. Rintallo, redattore della rivista «Quaderni Radicali» e di «Agenzia Radicale», ha svolto una video-conferenza per uno degli eventi promossi on line dall’associazione italo-inglese. Argomento dell’incontro una riflessione sulle anomalie storico-politiche dell’Italia, alla luce delle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni col passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica. Quella di seguito è la trascrizione del testo in italiano della relazione.

 

 

************* 

 

 

 Non si comprende la situazione storico-politica dell’Italia se non si tiene conto della natura «duale» all’origine della nostra Repubblica.

 

Alla fine della 2^ Guerra mondiale l’Italia si trova nella doppia condizione di Paese sconfitto, che nella fase finale si batte tuttavia al fianco degli Alleati usciti vincitori.

 

Tale condizione comporta un esito bifronte anche per la situazione interna del Paese. 

 

Da un lato, l’Italia non subisce le sorti della Germania occupata militarmente e costretta alla divisione in due nazioni (Repubblica federale – RFT – a Ovest; Repubblica “comunista” – RDT – a Est).

 

Dall’altro, all’Italia è sottratta autonomia decisionale in importanti settori come la difesa e la stessa gestione dei servizi di sicurezza, di fatto obbligati a rispondere alle direttive USA prima ancora che a quelle dei politici eletti dagli Italiani.

 

Una “Liberazione” nel segno dell’ambiguità

 

La stessa Resistenza contro il Nazi-fascismo ha carattere duale: i partigiani comunisti la vivono come lotta rivoluzionaria per instaurare la dittatura del proletariato, mentre le altre forze politiche come liberazione e ripristino della democrazia.

 

Gran parte della classe politica proviene comunque dalle fila delle organizzazioni universitarie fasciste. Ciò vale anche per il Partito Comunista Italiano (PCI), di cui molti esponenti e intellettuali erano prima iscritti al Partito nazionale fascista. Un dato biografico concreto che ha il suo peso nel tipo di militanza da essi praticata nel dopoguerra.

 

Altrettanto estraneo ai principi liberali e democratici è pure il gruppo dirigente della Democrazia Cristiana (DC), che risente invece del condizionamento del pensiero cattolico da sempre ostile al liberalismo.

 

Ai liberali, dai partiti di massa si rivolge l’accusa di avere originato l’autoritarismo fascista: un giudizio deformante del processo storico, che occulta tanto le relazioni di cattolici e comunisti col passato regime, quanto il fatto che il sorgere del regime di Mussolini si deve piuttosto al rivoluzionarismo dei massimalisti ispirati dal bolscevismo nel «biennio rosso» 1919-1920.

 

L’equivoco dell’anti-fascismo

 

Per comprendere il carattere equivoco dello stesso anti-fascismo posto a fondamento del nuovo Stato, occorre riferirsi all’assioma secondo il quale «tutti i democratici sono anti-fascisti, ma non tutti gli anti-fascisti sono democratici».

 

Di certo non poteva dirsi compiutamente democratico il PCI, pur essendo stato uno dei principali protagonisti della lotta partigiana anti-fascista.

 

Aderente alla 3^ Internazionale guidata dall’Unione sovietica, quello italiano è il più grande partito comunista dell’Europa occidentale e ciò incide profondamente sul sistema politico della nuova Repubblica.

 

Anche il PCI presenta una natura duale: pur partecipando all’atto fondativo della Costituzione democratica, è subordinato a una potenza di stampo totalitario come l’URSS che ne finanzia l’attività politica in modo non trasparente.

 

Proprio dal PCI proviene l’abile manipolazione culturale per cui invece l’anti-fascismo è presentato come sinonimo tout court di democrazia.

 

Ciò serviva a occultare all’opinione collettiva quanti e quali «strappi» anti-democratici comportava il ruolo esercitato dal PCI nella politica italiana, inferti persino alla Costituzione repubblicana laddove essa subordina i diritti fondamentali di una società libera all’autorità dello Stato.

 

Uguale manipolazione si registra oggi, quando la categoria dell’anti-fascismo è usata come arma di delegittimazione di ogni opinione avversa a quella prevalente nel mainstream informativo.

 

Bipolarismo coatto e bipartitismo imperfetto

 

Dopo Jalta a esercitare il controllo mondiale sono le due superpotenze USA e URSS, dotate di arsenali atomici per migliaia di bombe, tant’è che si parla a tal proposito di un ordine fondato sull’equilibrio del terrore in quanto ogni conflitto diretto provocherebbe la fine del pianeta.

 

Il mondo intero vive dunque sotto una forma di «bipolarismo coatto», per cui i due poli rappresentati da Stati Uniti ed Unione sovietica sono  in sostanza «obbligati» a convivere, sebbene fra loro si mantenga il contrasto latente della guerra fredda.

 

Il «bipolarismo coatto» internazionale si riverbera in Italia nel «bipartitismo imperfetto», che caratterizza il suo sistema politico nella prima fase della Repubblica.

 

La formula, enunciata dal politologo Giorgio Galli già nel 1966, rinvia ai due principali partiti del sistema politico: la DC e il PCI. L’attributo «imperfetto» evidenzia l’anomalia della democrazia in Italia, alla quale era di fatto impedita un’alternanza al governo in quanto il maggior partito di opposizione – il PCI – non aderiva a un modello autenticamente democratico.

 

Dal 1946, per quasi mezzo secolo, la rilevanza del Partito Comunista nel suo scenario politico agisce come una pesante zavorra che ostacola il compiuto realizzarsi della dialettica democratica propria delle altre nazioni europee. 

 

A questa presenza – indicata dal giornalista Alberto Ronchey come “fattore K” – si è fatto spesso riferimento per giustificare l’impossibilità di una reale alternanza nel governo del Paese. 

 

Da parte loro i comunisti, in minoranza nel Parlamento rispetto alle forze coalizzate intorno alla DC, non rivendicano il ruolo proprio di una opposizione costituzionale, ma preferiscono reclamare la loro quota di potere, in ragione della pressione che potevano esercitare con la lotta politica nelle piazze.

 

Pre-modernità e “zona grigia”

 

L’eccezione italiana rispetto alle altre democrazie testimonia la sua sostanziale pre-modernità. Quest’ultima può riassumersi nel dato che il suo assetto – politico ed economico – dipende da un limitatissimo numero di sfere decisionali. 

 

La principale preoccupazione di questa vera e propria oligarchia consiste nell’ostacolare qualunque cambiamento minacci di pregiudicare una realtà consolidata e protetta, per il timore che ciò potrebbe compromettere il controllo esercitato sul Paese.

 

Ai vertici di queste sfere decisionali, l’equilibrio bipolare derivato dal dopoguerra risulta quanto mai congeniale come strumento per collocare l’Italia in una sorta di «zona grigia», nella quale garantire nei fatti il sostanziale continuismo degli assetti di potere.

 

A fronte della mutilazione subita dalla democrazia per la mancanza di ricambio al governo del Paese, le classi dirigenti privilegiano l’instaurazione di una conduzione ibrida sia nell’economia che in politica.

 

In economia va così affermandosi un capitalismo assistito, assai lontano dai principi di una democrazia di mercato e contraddistinto da ampie quote di intervento statale a controllo verticistico; mentre in politica diventa prassi coinvolgere l’opposizione parlamentare nella gestione, a danno però della capacità decisionale e risolutiva.

 

La contaminazione anti-democratica

 

A un uditorio non italiano probabilmente risulterà complicato comprendere la deformazione dell’ordinamento democratico avvenuta.

 

Il suo primo effetto è consistito nell’aver sostituito il conflitto tipico di ogni democrazia, il cui «dramma» si gioca entro un chiaro sistema di regole, con un sistema di cooptazioni e compromessi

 

indicato dagli studiosi  come «democrazia consociativa».

 

Sull’Italia grava la contaminazione anti-democratica ereditata dai vent’anni di regime sotto Mussolini, a cui subentra una Repubblica dominata da partiti che, distanti dalla cultura politica liberale, puntano ad esercitare una pervicace volontà di controllo sulla società: dal «partito singolare» del Ventennio al «partito plurale» della Repubblica, secondo la lezione del giurista Giuseppe Maranini.

 

Questa propensione della politica si coniuga con gli obiettivi del capitalismo di relazione tipico dell’Italia, cresciuto nella bambagia del protezionismo ed arroccato a difesa dell’esistente.

 

Inoltre, fra potentati economici e sinistra sociale, a lungo condizionata dal PCI, si realizza una singolare convergenza, per cui alla tutela degli interessi legittimi è preferito il criterio dell’appartenenza e della cooptazione pervasiva.

 

I guasti causati dal sistema consociativo

 

Lo strano connubio fra le oligarchie del potere economico ed una sinistra a prevalenza comunista, subordinata a una potenza straniera come l’URSS e proprio per questo incapace di una proposta davvero alternativa, avviene dunque su una comune piattaforma di stampo conservatore.

 

Gli stessi interventi legislativi volti a modellare una forma di Stato sociale (di welfare) rispondono più all’esigenza di un avvolgente controllo dei partiti sulla società che non a modernizzarla. Essi erigono un  pauroso, quanto costoso edificio normativo che produrrà la spirale senza fine di un aumento del debito pubblico, senza riuscire a garantire servizi davvero efficienti ai cittadini.

 

Al riguardo possono essere illuminanti alcuni esempi. La riforma sanitaria,  concepita per occupare postazioni da cui esercitare la politica clientelare e propagandata invece per lo strumento con cui garantire al meglio la salute pubblica.

 

Le leggi sull’edilizia agevolata, a parole tese a favorire la proprietà diffusa ma in realtà un altro mezzo con il quale conculcare le libertà dei cittadini, escludendo dalle elargizioni quanti non appartengano ai gruppi protetti.

 

La concessione di pensioni con pochi anni di lavoro, all’origine dell’odierna crisi del sistema previdenziale che oggi penalizza fortemente i lavoratori più giovani per preservare privilegi mascherati da diritti.

 

Sono i guasti più evidenti dell’accordo consociativo che ha costretto l’Italia in una ragnatela dove le autonomie degli individui sono state demolite, assicurando a un ridotto numero di soggetti il controllo della vita collettiva.

 

Le oligarchie nemiche della “differenza”

 

Quella italiana è una società, per natura e storia, attraversata sotto traccia dall’orgoglio della differenza e dell’autonomia.

 

Contro di essa, i gruppi dominanti hanno promosso una strategia volta a narcotizzarla proponendo un sistema di potere adattatosi di volta in volta alle evoluzioni della Storia. 

 

Tale sistema è nemico della differenza, giudicata di per sé un male, e geloso di una gestione oligarchica del potere, convinto com’è che l’espressione della volontà popolare sia da scongiurare, considerando il popolo più come «gregge» da guidare che non come comunità di cittadini liberi e responsabili.

 

Alle forze trasversali – dai funzionari della burocrazia statale a quelli dei vertici politici e sindacali – che costituiscono il «blocco sociale» promotore di questa egemonia oligarchica sul Paese, in alcune occasioni della storia recente è stata lanciata la sfida da forze potenzialmente alternative.

 

Tali occasioni si sono verificate in coincidenza con eventi o mutamenti storico-politici che spesso erano dovuti a fattori esterni. Tuttavia, si è trattato per lo più di occasioni mancate poiché non hanno inciso sul continuismo del sistema, ispirato dalla celebre frase del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: falso cambiamento e adattamento camaleontico paiono renderlo immutabile. 

 

Se consideriamo gli ultimi cinquant’anni, possiamo individuare almeno tre passaggi storici nei quali si è aperta una prospettiva di cambiamento.

 

La stagione dei diritti civili

 

Il primo coincide con la stagione dei diritti civili seguita al sommovimento mondiale degli anni ‘60 del secolo scorso.

 

A imprimere la scossa a una politica incapace di fronteggiare la sfida della modernità, è l’iniziativa di una piccola ma determinata formazione: il Partito radicale guidato da Marco Pannella.

 

I radicali fanno leva sull’emergere di nuovi soggetti sociali come giovani e donne e promuovono un’uscita dallo stato di pre-modernità dell’Italia.

 

Il merito dei radicali all’inizio degli anni ’70 è proprio quello di coniugare la forza dirompente del movimento internazionale dei diritti civili con le nuove esigenze presenti in Italia. La rivista «Quaderni Radicali» per la quale collaboro, diretta da Giuseppe Rippa, ha rifornito nel corso del tempo materiali e documenti per promuovere una lettura “altra” delle vicende storico-politiche dell’Italia, che in gran parte ispira anche queste note.

 

Il momento culminante dell’azione dei radicali è la campagna per il NO all’abolizione del divorzio, nel referendum voluto dalle associazioni clericali. In tal modo, impedirono che le forze laiche e di sinistra dissipassero – come voleva il PCI portato invece al compromesso – l’occasione che si offriva loro per promuovere una laicizzazione della politica italiana.

 

Infatti, la vittoria dei NO al referendum oltre a incidere sul costume, rendeva visibile una potenziale alternativa.

 

Il soffocamento dell’alternativa e gli “anni di piombo”

 

Il 60% dei NO scaturito dalla convergenza delle forze laiche e di sinistra indicava una prospettiva nuova alla politica. Ma perché potesse prendere corpo, occorreva una chiara scelta in senso riformista del PCI. Invece, il suo obiettivo strategico andava nel senso di un’alleanza stabile e duratura la DC.

 

In questo senso, il compromesso storico proposto dal segretario comunista Berlinguer era funzionale alla manovra del blocco sociale al potere, interessato a soffocare ogni cambiamento, giudicato rischioso per la salvaguardia di interessi consolidati.

 

Gli anni di piombo del terrorismo brigatista favoriscono tale disegno, in quanto si impone la percezione che qualunque trasformazione sia peggiore.

 

La violenza terroristica, che in Italia è fenomeno di lunga durata rispetto al resto d’Europa, contribuisce così al mantenimento dello status quo.

 

Da parte dei fautori del continuismo si determina una duplice dialettica col terrorismo politico. Da un lato, permetteva a quest’ultimo di raccogliere adepti in quell’area di scontento e di marginalità che inevitabilmente si crea quando trionfa una “cappa” politica; dall’altro lato, la presenza del terrorismo assicurava l’obbligatorietà dell’accordo consociativo, compromettendo l’alternanza al governo tra partiti diversi a causa della situazione d’emergenza.

 

In nome dell’emergenza, l’unanimismo dei governi di unità nazionale con dentro il PCI soffocò il potenziale rinnovamento prefiguratosi nel 1974 e costrinse il Paese sul fronte arretrato di un eccesso di statalismo.

 

Il riformismo degli anni ’80…

 

Un secondo momento in cui l’Italia sembra aprirsi su un orizzonte dinamico e di mutamento è rappresentato dagli anni ’80. Durante questo periodo prosegue il lento superamento del terrorismo e si avvia un processo di riconversione industriale, in risposta alla crisi degli anni Settanta.

 

Evento simbolico dell’abbandono delle politiche dirigiste è la marcia dei 40.000 quadri Fiat a Torino del 1980. Un contributo a tale processo proviene anche dai mutamenti intervenuti a livello politico: il neo-segretario socialista Bettino Craxi fa intraprendere al suo partito un «nuovo corso», abbandonando ogni forma di massimalismo in favore dell’aperta adesione al riformismo.

 

È una politica che rompe gli equilibri e fa esplodere le contraddizioni di un sistema intrinsecamente pre-moderno. Proprio per questo il Partito socialista di Craxi concentra su di sé un’area estesa di contrasto. 

 

Il tentativo di creare anche in Italia una forza di sinistra riformatrice con ruolo di governo fa come scattare un allarme generale, che coalizza tanto gli altri soggetti del quadro politico, quanto i “partiti irresponsabili” che potevano far conto su un’informazione da tempo omologata alle direttive di una finanza per nulla intenzionata a cambiare qualcosa nel panorama italiano.

 

Da presidente del Consiglio, Craxi non è per niente succube del PCI e per questo dal PCI giudicano «pericoloso» il suo governo. Eppure proprio questo governo vince il referendum del 1985, promosso dai comunisti per abolire il decreto che riduceva le buste paga: a sorpresa gli elettori votano NO, dando esplicita fiducia alla politica governativa.

 

… e il duello a sinistra

 

Debolezza elettorale e accerchiamento logorano l’azione politica dei socialisti, contro i quali il PCI pratica una chiusura totale. Ogni possibilità di realizzare un’alternativa credibile si dissolve per incapacità, egoismi e velleitarismi in entrambe le maggiori forze della sinistra italiana.

 

Ancora una volta la sinistra non riformista, egemonizzata dal PCI, si collocava sull’altra sponda rispetto alla volontà di cambiamento pur presente nel Paese.

 

L’esito della guerra a sinistra fra PSI e PCI rimane nella sfera delle occasioni perdute. Se si fosse aperta una via di dialogo per provare ad ampliare l’area di consenso, forse la storia italiana sarebbe stata diversa.

 

Dopo la fine dell’ordine di Jalta

 

Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e con il dissolversi dell’impero sovietico, si profila la terza occasione mancata dell’Italia per fuoriuscire dalla sua anomalia politica e istituzionale.

 

Invece di veder realizzato un reale processo di modernizzazione, una volta liberati dalla gabbia dell’ordine di Jalta, nel corso degli anni ’90 in Italia la transizione resta come sospesa e riprende vigore la restaurazione delle oligarchie dominanti, protese a dare nuova giustificazione all’imprescindibilità del modello da esse sostenuto.

 

Passaggio decisivo di tale restaurazione può riconoscersi nei processi di Tangentopoli, che portarono alla fine della cosiddetta Prima Repubblica nel 1993.

 

A trent’anni dai processi di Tangentopoli, molti opinionisti e commentatori riconoscono quali esiti hanno prodotto. Il sisma del 1992-93 si conclude, infatti, con la marginalizzazione delle forze espressione di una volontà riformatrice. 

 

Seppure il liberalismo, dopo il 1989, è uscito storicamente vittorioso sulle ideologie totalitarie, sono i frutti malati di queste ultime – intolleranza e settarismo – a contaminare tuttora la vita pubblica.

 

Altrettanto resistente è risultata la perdurante strategia di controllo pervasivo della società, che da sempre plasma l’assetto di potere dominante in Italia. Le oligarchie economico-finanziarie estendono il loro grado di influenza, mentre l’ondata dell’anti-politica alimentata dallo scandalismo dell’informazione minimizza sempre più il ruolo delle forze politiche.

 

Ad assecondare questo processo è il bipolarismo, ancora una volta anomalo, della cosiddetta Seconda Repubblica che si fa iniziare dopo l’introduzione del sistema elettorale maggioritario del 1993.

 

Il Centrodestra, a lungo imperniato sulla figura dell’imprenditore televisivo Berlusconi, e il Centrosinistra aggregato dall’unione fra post-comunisti ed ex democristiani danno sì luogo a un’alternanza ma senza realizzare le riforme necessarie all’Italia.

 

Il Paese galleggia in una transizione incompiuta, funzionale all’immobilismo gradito al blocco degli interessi corporativi e finanziari ai quali è sottomessa gran parte dell’informazione, dedita per lo più ad amplificare scontento e ribellismo.

 

Conclusioni: una democrazia ancora bloccata

 

Spazio ed enfasi di stampa, tv e internet ad ogni forma di demagogia e ribellione sterile non sono casuali. Servono a salvaguardare gli assetti di potere esistente, altrimenti compromessi qualora prevalesse un intento riformatore pragmatico.

 

Gli stati di frustrazione e confusione garantiscono al meglio di non realizzare alcun mutamento sostanziale, che è il vero scopo di ogni oligarchia dominante.

 

L’orientamento di quella italiana, in questi ultimi trent’anni, è consistito nel farsi schermo degli obblighi imposti dall’adesione all’Euro per continuare a giustificare l’intangibilità di un establishment che, per i suoi propositi evidentemente conservatori, contrasta con gli interessi generali.

 

A consentire ciò è l’anomalia che distingue l’Italia anche dal punto di vista costituzionale. 

 

Anziché adottare i sistemi istituzionali di Germania o Francia, in Italia si è scelto una soluzione ibrida per cui un Presidente del Consiglio dai ridotti poteri convive con un Presidente della Repubblica, privo della consacrazione del voto diretto del popolo, ma dotato di ampie facoltà di indirizzo e di decisione.

 

Questo snodo non è mai stato affrontato dalla politica italiana, cosicché oggi, dopo la sua riduzione a sottosistema del potere economico-finanziario, diventa ancor più problematico immaginare una fuoriuscita dall’impasse in cui si trova il Paese.

 

 


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