di Gianni Carbotti e Camillo Maffia
Si pensava d'averle viste tutte. Ma la Lega Nord, il partito che ha la principale responsabilità politica, istituzionale, economica e mediatica del disastroso sistema dei campi nomadi per come oggi lo conosciamo, che si scaglia contro questo sistema rilanciando le stesse balle che raccontava quando l'ha incentivato - per di più appropriandosi dei contenuti critici di chi, in questi anni, ha messo in discussione le politiche del centrosinistra e di una parte dell'associazionismo – è il simbolo d'un Paese che non soltanto ha perduto ogni traccia di memoria storica, ma non si ricorda neppure che ha mangiato giovedì scorso.
Per riassumere l'enormità della riscrittura storica in corso, saremo costretti a semplificare, certi che ci sarà perdonata qualche approssimazione. I campi nomadi nascono, dal punto di vista normativo, con alcune leggi regionali volte a tutelare quello che all'epoca s'identificò come una sorta di “diritto al nomadismo” per quelle comunità di Rom, Sinti e Caminanti italiani che lottavano, in un contesto sociale ed economico ormai irrimediabilmente mutato rispetto agli anni del “boom”, per mantenere in vita i mestieri tradizionali.
Negli anni Novanta, in seguito alla guerra della ex Jugoslavia, comincia un esodo di profughi dai Balcani che aumenterà verso la fine del decennio con la guerra del Kosovo. Si crea così quello che possiamo definire, banalizzando necessariamente, un equivoco: il modello dei campi di sosta, pensato appunto per consentire la sopravvivenza dei “girovaghi”, viene applicato ai rom in fuga dai conflitti nell'Est-Europa. Popolazioni che avevano perduto ogni connotazione “nomade”, stanziali da generazioni, che avrebbero dovuto essere inserite nelle politiche per i rifugiati, finiscono invece “stipate” in accampamenti che avrebbero dovuto in ogni caso essere temporanei, ma che si stabilizzano sui terreni delle città interessate. Terreni attorno ai quali cominciano a sorgere degli interessi, per la semplice ragione che ospitare un tot di rom sul proprio appezzamento implica una sovvenzione da parte dei Comuni.
La situazione è più o meno questa quando, negli anni Duemila, il problema dei campi nomadi comincia a farsi sentire a livello macroscopico. Ci sono problemi di ogni tipo, che vanno dalla sicurezza e dalle condizioni dei campi alle spese sempre più inaccettabili per gestione, manutenzione e assistenza. Ma la cosa più importante è che questi spazi sono diventati dei veri e propri ghetti, tanto che nell'ottobre del 2000 l'ERRC pubblica la ricerca “Il Paese dei campi”, in cui questa realtà tutta italiana giunge all'attenzione della comunità internazionale. Inevitabilmente, anche all'interno degli stessi campi si sviluppano quei problemi di microcriminalità che sono propri di circuiti segregati e segreganti, alimentando un pregiudizio purtroppo già radicato nei confronti dei cosiddetti “zingari”.
Come in una commedia degli errori avviene che un piccolo equivoco, simile ad un sasso che pian piano diventa una valanga, si propaga fino a creare una trama del tutto originale, così nella tragedia di questo popolo le leggi che erano state inizialmente promulgate per venire incontro alle esigenze di piccoli artigiani si risolvono in un sistema soffocante, marginalizzante e criminogeno, che allontana i rom dalla società italiana tanto a livello metaforico quanto sul piano spaziale.
In questo contesto, nel 2008, il governo Berlusconi e dichiara l'emergenza nomadi. Sul sistema delle emergenze di quell'esecutivo è stato ormai già detto tutto ed è inutile serbare i segreti di Pulcinella: esemplificato dalla gestione del terremoto a L'Aquila, il modello svelato pian piano negli anni dalle inchieste giudiziarie e giornalistiche è quello di utilizzare una emergenza reale o presunta per giustificare l'aggiramento delle normative a tutela della trasparenza, elargendo a destra e a manca fondi di volume impensabile tramite appalti senza gara e bandi in affidamento diretto.
Con l'emergenza nomadi il solo Comune di Roma, all'epoca governato dalla Giunta Alemanno, riceve dal Ministero dell'Interno ben 30 milioni di euro, cui ne aggiunge altri 30 dalle casse comunali con dinamiche che saranno chiarite in modo efficace soltanto dall'intervento della Procura nel 2014 con la operazione “Mondo di mezzo”.
Il sistema-campi viene istituzionalizzato con leggi speciali e un volume d'affari senza precedenti, creando di fatto l’inaccettabile situazione di degrado a cui oggi assistiamo. Ma chi era il ministro dell'Interno? Esattamente come ora, era un leghista: Roberto Maroni. Sì, lo stesso partito che oggi tuona contro il business dell'accoglienza per i migranti, il cui segretario e attuale ministro dell'Interno, ultimo prodotto della televisione più deteriore, ha fondato il suo successo prima mediatico e poi elettorale sul tormentone della “ruspa”, senza dire che i costi di uno sgombero possono arrivare fino a 100.000 euro e che, in assenza di alternative d'alloggio, ogni evacuazione forzata crea i presupposti per una successiva evacuazione forzata. Ma è proprio su questo che si sono fondate le politiche sulla pelle dei rom.
Conosciamo cittadini rom italiani, quelli che secondo Salvini “purtroppo” ci dobbiamo tenere, che di sgombero in sgombero hanno girato letteralmente tutta la Capitale; dal che si deduce che quest'ultima ha gettato per decenni i soldi dei contribuenti in “ruspe” affinché le chiappe del povero Miroslav facessero il più idiota dei giri turistici mai realizzati nella pur antica Città Eterna!
Ecco cos'è la ruspa: una truffa, una balla elettorale, uno spot sulla pelle di bambini che a scuola, invece di disegnare i fiori e le casette, disegnano questa specie di Godzilla che gemendo e latrando calpesta le loro case. E noi lo sappiamo perché quei disegni li abbiamo visti. Con buona pace delle chiacchiere di Salvini, è altamente improbabile che qualunque cittadino nato in Italia (e la maggior parte di quei bambini è nata in Italia) possa sviluppare un rapporto di serena fiducia nelle istituzioni, se le istituzioni si presentano come Godzilla: e questo è tanto semplice che chiunque potrebbe capirlo, se solo si fermasse a riflettere.
Altrettanto chiaro avrebbe dovuto essere, a suo tempo, l'esito dei progetti nati dalle costole della “emergenza rom”, i vari “piani nomadi” come quello di Alemanno fondati sul concetto seguente: se io distruggo le baracche di un insediamento vicino ai servizi, alle scuole e al centro abitato; deporto gli abitanti, indipendentemente dal loro livello d'inclusione sociale, in spazi lontani anni-luce dal fulcro della vita urbana, preferibilmente su terreni tossici e discariche abusive, e costruisco delle alte palizzate circondate di guardie in divisa, certamente aiuterò quelle persone a includersi socialmente.
Si ammetterà che è difficile imbattersi in un ragionamento più contraddittorio. Eppure è con queste brillanti pensate che le politiche di matrice leghista hanno gestito per anni quello che oggi hanno l'incredibile faccia tosta di definire il “business dell'accoglienza”. La Lega, il partito che ha speso la bellezza di due miliardi e 868 milioni di euro in soli tre anni, fra il 2008 e il 2011, tra accoglienza dei richiedenti asilo, rimpatrio dei clandestini e gli stessi campi nomadi. Un volume d'affari che si è tradotto nelle più aberranti violazioni dei diritti umani, esemplificate dallo scandalo mondiale dei Cie.
La Lega, infatti, ha avuto due pensate obiettivamente geniali: decuplicare (dati alla mano) il business dell'accoglienza, e affiancarvi quello della sicurezza, conducendo l'abile performance sul canovaccio dell'emergenza sostenuta da una propaganda che non s'è mai fatta scrupolo neppure di alterare i dati relativi alle presenze dei rom nelle grandi città. Ai milioni di euro spesi per la gestione e la manutenzione degli insediamenti s'affiancavano, negli anni della grande abbuffata, altrettanti milioni buttati in presidi, cooperative di vigilanza e telecamere che spesso neppure funzionavano.
Chi scrive lo sa perché all'epoca si fece un obiettivo personale di testarle meticolosamente facendo linguacce e cantando i Sex Pistols, senza suscitare mai alcuna reazione nei dispositivi inerti; allo stesso modo, vantiamo una conoscenza piuttosto concreta del funzionamento della guardiania negli anni del “pugno di ferro”, visto che siamo entrati e usciti dai campi nomadi, negli orari più diversi, senza che anima viva ci fermasse neppure per chiederci dove stessimo andando.
E com'è cominciata la grande “pacchia” di chi s'è spartito milioni degli italiani ponendo le basi per un disastro sociale? Proprio come ora: proclami, slogan razzisti, l'annuncio di censimenti su base etnica, per di più nei riguardi di una minoranza che se non è già la più censita del mondo poco ci manca; promettendo sgomberi, sicurezza, rimpatri – le stesse, identiche chiacchiere che la Lega dava a bere agli elettori nel 2008, quando poneva le basi per la situazione che oggi promette di risolvere.
Ma allora come fa Salvini a venderle oggi ai suoi spettatori? Semplice: è un poser. Simula l'attitudine dell'anti-sistema, dell'indipendente, del punk che va in TV a dire quello che nessuno osa dire, laddove è ovvio che è la massima incarnazione del sistema, dell'aspetto più deteriore del sistema-partiti e del circo mediatico. Esattamente quello che ha in comune con Luigi Di Maio e, più in generale, con il Movimento 5 Stelle.
Non soltanto quindi, ascoltando certe dichiarazioni, con un brivido lungo la schiena si ha l'impressione di rivivere le pagine più nere della storia italiana; ma si è anche avverato il nostro incubo peggiore, la distopia più agghiacciante, l'orrore definitivo: un intero governo di posers!