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27/12/24 ore

Mafia Capitale, la bizzarra “legalità” di Marino e sodali



Il sindaco Marino e i suoi allegri sodali hanno un bizzarro concetto della legalità: nei giorni scorsi l’amministrazione ha fatto a pezzi le baracche di 20 insediamenti abusivi in cui vivevano famiglie senza casa, perché il primo cittadino ritiene che l'illegalità sia intollerabile. Ora, davanti a 44 arresti  (altri se ne aggiungono giorno per giorno),  in un Comune che rischia di essere sciolto per mafia Marino risponde: "Noi andiamo avanti".

 

Sulla vicenda di "Mafia Capitale" a questo punto qualche considerazione va fatta: la presunzione d'innocenza è un diritto umano sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (art.6), in cui è dichiarato espressamente che l'imputato è innocente fino a quando non viene dimostrata la sua colpevolezza.

 

Se questo è un diritto, al tempo stesso è un dovere, in una situazione che investe trasversalmente chi ha governato la capitale d'Italia e che si sta rapidamente espandendo a far tremare l'intera classe dirigente, interrogarsi senza sconti sulle responsabilità politiche di chi l'ha causata, quindi in primis i vertici dell'amministrazione.

 

Qui accade invece il contrario: le responsabilità penali sono date per scontate, ed è stata innalzata la gogna mediatica; su quelle politiche si chiacchiera, si discute, con personaggi in prima linea pronti a difendere il sindaco. Il quale è stato il primo a violare apertamente e ripetutamente i diritti umani, sempre nell'ambito della gestione dei campi nomadi e dell’immigrazione, violando la legge in modo manifesto: e non viene, per questo, né accusato né perseguito. Così il detenuto in attesa di giudizio è già diventato Arsenio Lupin prima ancora di essere processato, mentre c'è ancora in giro chi ha il coraggio di tentare una seconda volta quel capolavoro d’ipocrisia che è stata la resurrezione e canonizzazione di Marino nel dicembre scorso.

 

Le indagini mostrano una sola verità inequivocabile, ossia che mentre il paese s’inabissa continua l’inossidabile matrimonio della destra e della sinistra di regime, come quelle vecchie, adorabili coppie che battibeccano apparentemente di continuo, ma solo davanti agli altri, quasi a voler nascondere la propria felicità per timore dell’invidia altrui, e poi si sdraiano la sera stanchi nel letto coniugale, abbracciandosi come avessero vent’anni, in quella placida intimità che solo il riposare su una solida fortuna economica e sociale può conferire a due attempati coniugi.

 

Ognuno ha il suo compito: la destra parla, la sinistra agisce, a secondo di chi gestisce l'amministrazione, e fino a poche ore prima della bufera, mentre Salvini occupava i palinsesti televisivi grazie ai suoi insulti razziali, Marino sgomberava i cosiddetti "Rom ricchi". Una favola che convince gli italiani, imbevuti di leggende sugli zingari che vivono nei campi nomadi mentre possiedono sfavillanti macchine di lusso, acquistate coi proventi di chissà quali attività.

 

Il che può anche essere, ma in realtà, le famiglie sfrattate senza preavviso, le loro vite strappate a metà dall’improvvisa irruzione delle politiche d’inclusione della giunta capitolina, sono famiglie di poveracci: qui una donna incinta che non sa dove andare, lì una vecchia signora malata di cuore. I loro conti in banca? Qualche migliaio di euro messo da parte in anni passati a raccogliere rottami in giro per la città e rivenduti poi agli spacci del ferro, con cui si è tentato di dar da mangiare, vestire e mandare a scuola cinque o sei figli.

 

Certo, poi le indagini si concludono, e i "Rom ricchi", nella stragrande maggioranza dei casi, vengono assolti: ma nel frattempo, i loro miseri container sono stati distrutti, o assegnati a qualcun altro. Ma provate a dirlo agli spettatori che hanno assistito a trasmissioni come quella di "Mattino 5", in cui giovani Rom affermavano la loro propensione per il furto ai danni degli italiani: anche lì, poi viene fuori lo scandalo, le ragazze sono state pagate per rilasciare quelle dichiarazioni, i giornalisti sono stati cacciati; ma resta, nello spettatore, un senso di disagio, di diffidenza, sottili meccanismi consci e inconsci che racchiudono come un guscio sempre più solido l’istintiva paura del diverso – un guscio ormai così impenetrabile da non essere scalfito neppure dalle rivelazioni emerse dall’inchiesta di Pignatone.

 

E questo fa comodo a tutti, altrimenti bisognerebbe porsi domande fastidiose. Ad esempio: perché solo alcune persone vengono sgomberate, e altre no? Qual è la logica che spinge l’amministrazione a ordinare di buttare giù sei o sette baracche su trenta, in un campo tollerato? Eppure gli sgomberi, da Veltroni in poi, hanno sempre seguito le stesse dinamiche.

 

La prima è: ti caccio da quel terreno, dove la tua presenza non mi frutta nulla, e ti trasferisco su quell’altro, dove il proprietario e gli incaricati della gestione guadagneranno centinaia di migliaia d’euro al mese. Ma ora, dopo l’intervento della procura, non è più così facile giocare in questi termini.

 

La seconda è lo sgombero di tipo mediatico, per far vedere ai residenti del municipio che il Comune si dà da fare. C’è infine il terzo tipo, che va a toccare chi per avere un container deve fare favori; ogni tanto scatta l’arresto, come è accaduto alcuni mesi fa a due vigili nel campo di via di Salone, i quali in cambio di sesso e altre delicatezze si prendevano cura degli alloggi; e dove queste pratiche continuano serenamente, le ruspe non hanno motivo di abbattersi, per recarsi invece a portar via la vita, gli affetti, i ricordi contenuti nelle fatiscenti dimore di lamiera abitate da chi ha la sventura di risiedere in un campo in cui, purtroppo, i capi o i singoli non riescono a mantenere gli accordi presi.

 

Il fatto è che a Roma non ci sono solo i comuni senzatetto come in altre città; esistono anche due tipi speciali di baraccati, quelli di pizzo e quelli di raso: i primi pagano il balzello e mantengono in piedi le baracche, mentre quelle dei secondi vengono rase al suolo. Allo stesso modo, recandosi in un campo nomadi autorizzato, si vedranno da un lato container quasi graziosi, con piccole verande, lavatrici e aria condizionata; e dall’altro container rotti, cadenti, senza elettricità, accanto agli sbocchi mefitici delle fogne.

 

I primi sono abitati perlopiù da ragazze madri, sole, giovani e attraenti nonostante le occhiaie e l’aria sempre stanca, ma anche da tipi robusti, di quelli che si sa, non è il caso di discuterci, ma se ti serve qualcosa, meglio andarci a parlare. I secondi da disoccupati, vecchi, disabili, malati, famiglie troppo numerose e gente che chiede la carità e l’elemosina. Anche questa è la realtà dei Rom nella Capitale; ma queste cose non bisogna dirle, né scriverle.

 

E’ preferibile schierarsi al fianco del sindaco Marino, e magari suggerire vie d’uscita per restituire dignità alla città e al futuro dei Rom, perfino con proposte di legge di iniziativa popolare per il superamento dei campi, proponendo candidamente di riconvertire l’attuale mole di spesa pubblica in percorsi d’inclusione.

 

Che angeli, verrebbe da dire! Peccato che Roma Capitale avrebbe dovuto (ormai da tre anni) ricorrere ai fondi europei, per superare l’attuale situazione di degrado; che per farlo avrebbe dovuto aprire dei tavoli amministrativi, convocando la rappresentanza Rom, ed elaborare progetti compatibili con la "Strategia Nazionale d’Inclusione" varata nel 2012 in attuazione della Comunicazione della commissione europea n. 173/2011; e che se non l’ha fatto è per i motivi resi evidenti dalla operazione "Mondo di Mezzo", ossia (detto pane al pane) continuare a spartirsi i soldi con appalti senza gara anziché farli passare per le annose procedure europee, con tutta quella noiosa trasparenza, gli infiniti moduli da riempire e l’impossibilità di prendere accordi milionari tramite una telefonata o un caffè in centro (se non per diritto di nascita: c’è anche chi si dava da fare per far gestire svariate decine di migliaia di euro a parenti stretti, ma questo nell’inchiesta non è confluito e dunque non se ne parla, perché i media amano dare addosso a chi è in galera anziché parlar male di chi è al potere).

 

Perché, quindi, bisognerebbe riconvertire una spesa che dovrebbe essere semmai pressoché azzerata? Non bisognerebbe piuttosto sollecitare l’apertura dei tavoli comunali e regionali per implementare la Strategia, affinché il Comune di Roma rientri finalmente nella legalità? Ma no: meglio sostenere il sindaco, invece, e lottare affinché tutto cambi perché rimanga com’è.

 

E meglio ancora è lanciare tesi più popolari, magari venate d’anticlericalismo di maniera: ipotesi subito riprese dalla stampa generalista, come quelle per cui l’aumento degli sgomberi sarebbe da collegare all’imminente Giubileo, rievocando l’epoca di Francesco Rutelli. Bei tempi, quando le politiche avevano ancora queste logiche, brutte, certamente, ma quantomeno evidenti, e lontane dal quadro di connivenze e brutalità che oggi contraddistingue la "questione Rom" a Roma!

 

L’allora sindaco, è vero, nel 2000 sgomberava i Rom accampati nei dintorni del centro, e li mandava più lontano, in periferia; oggi accade invece l’opposto, sono i Rom di Castel Romano che vengono sgomberati e tornano ad accamparsi in zone più centrali, a Tor de’ Cenci, perché le dinamiche son ben altre, altrimenti non si spiegherebbe che senso avrebbe, volendo "ripulire" Roma per i pellegrini, andare a cacciare i Rom dagli insediamenti più lontani.

 

Castel Romano e Salone sono i più distanti dal centro in assoluto (insieme a La Barbuta, il campo più malfamato di tutti, dove però, chissà perché, non va mai nessuno, forse per via dei soggetti che di fatto lo gestiscono): gli ultimi sgomberi sono avvenuti tutti in aree in cui, in vista del Giubileo, non solo sarebbe convenuto all’amministrazione che i Rom rimanessero, ma volendo proprio seguire una logica crudele e utilitaristica sarebbe stato anzi meglio sovraffollarli ancora un po’, mandando via piuttosto le famiglie accampate vicino agli alberghi, ai collegamenti, ai monumenti storici, a poca distanza dai Musei Vaticani – non certo quelle che, vivendo a oltre venti chilometri dal centro abitato, nel bel mezzo d’una riserva naturale (come i Rom di Castel Romano), non potrebbero rovinare il Giubileo neanche se cominciassero tutte a bestemmiare contemporaneamente!

 

L’altra faccia di Roma è quella di una città di baraccati, del tutto simile agli affreschi di Pasolini o di Ettore Scola. In verità, i Rom c’entrano ben poco: sono in tutto 20.000, di cui solo 7.800 vivono nei campi nomadi. Dappertutto, nella città, sorgono accampamenti di persone indigenti, senza distinzioni di etnia, sesso e religione.

 

Le vittime dello sgombero di Ponte Mammolo non erano neppure Rom. Gli ultimi dati della Caritas ci consegnano uno scenario di crescente miseria. In tutto questo, si continuano a far politiche "per i Rom", che non possiedono uno status giuridico (non sono una minoranza riconosciuta, come ricorda Rita Bernardini che in questi mesi ha sostenuto la difficile battaglia della Federazione Rom e Sinti Insieme per il riconoscimento della minoranza linguistica), eppure esiste un ufficio Rom, Sinti e Camminanti.

 

Certo, il sindaco gli ha cambiato nome, prima si chiamava "ufficio nomadi". Immaginiamo un paese in cui ci sono minoranze riconosciute e una sola a cui viene negato qualunque riconoscimento, perfino quello di aver subito l’Olocausto; ipotizziamo che questa minoranza sia quella ebraica; pensiamo a una città in cui esistano dei "campi giudei", un "ufficio giudei", delle "politiche per gli ebrei", governata da un sindaco che annuncia il "metodo del rigore contro gli ebrei" e ordina la distruzione delle loro baracche, chiuse in campi-ghetto, senza preavviso; e poi lo stesso sindaco s’affaccia una mattina sorridente e dice: "Bisogna avviare politiche d’inclusione per gli ebrei. Da oggi non avremo più un ufficio giudei: si chiamerà ufficio ebrei". Cosa penseremmo di un paese, di una città, di un sindaco così? Non susciterebbe orrore nel nostro senso d’appartenenza alla civilissima Europa?

 

Eppure questo da noi non avviene, perché qui si tratta dei Rom. I quali, per la politica italiana, smettono di essere tali appena riescono a uscire dal campo. Non esistono, infatti, politiche per questa minoranza al di fuori di quelle dei campi nomadi. Sia che si parli di progetti d’inclusione, sia di buttar giù i loro insediamenti, la politica guarda solo ed esclusivamente a coloro che vivono nei campi.

 

Ossia, semplice gente senza casa, come tanti italiani e stranieri in una città sempre più povera, degradata, violenta, sporca, disfunzionale, in cui vengono però di tanto in tanto prese misure straordinarie, come cacciare i pittori e le bancarelle da piazza Navona o sgomberare i Rom con i loro violini; quasi a voler dimostrare di essere disposti a tollerare la mafia, il pizzo, la prostituzione coatta, la sporcizia, la corruzione, tutto, fuorché la poesia.

 

Camillo Maffia e Gianni Carbotti

 

- Trailer Dragan aveva ragione

 

 


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