Il documento presentato dal governo Renzi lo scorso settembre come proposta di riforma della scuola, ha tutta l’aria di un moderno ricettario, a partire dalla scelta grafica, ma gli ingredienti, presunti neoliberisti, che intende suggerire per migliorare e di fatto rendere più appetibile la scuola italiana, già sotto il mirino delle giurisdizioni sovranazionali, non convincono i suoi "innovatori naturali", ovvero chi la scuola la fa o vorrebbe farla.
La rivoluzione sostenuta dal cambio di verso renziano, per quanto si scontri storicamente con un certo conservatorismo delle istituzioni scolastiche, dovrà fare i conti con le centinaia di mozioni di sfiducia e delibere dei collegi dei docenti, assemblee sindacali e studentesche di istituto che, in alcuni casi, si sono richiamate alla legge di iniziativa popolare "Per una Buona scuola per la Repubblica", già depositata in Parlamento nel 2006, ma, per un triste destino comune alle varie iniziative legislative provenienti dal basso, non ancora discussa.
Renzi, dunque, è stato bocciato da quegli stessi docenti chiamati a essere i protagonisti dell’ennesimo talent show, in cui la professionalità di ognuno sia costantemente vagliata dal giudizio insindacabile di un Nucleo di Valutazione interno e di un docente mentor, così, tanto per ricordarci che "siamo tutti Telemaco" e c’è sempre bisogno di un "Mentore" al nostro fianco, magari per favorire una progressione di carriera, ammesso di rientrare in quei due terzi della scuola ai quali spetterebbero gli scatti retributivi…
Alla chiusura delle consultazioni online previste dal documento, avvenuta lo scorso 15 novembre, ad aver scatenato la "disobbedienza" dei prof - i quali, in perfetta sintonia con lo spirito goliardico di certi studenti, hanno lanciato al Ministero le loro mozioni di sfiducia sotto forma di aeroplanini di carta - non è stato soltanto l’intento rottamatore del premier rispetto ai tradizionali Organi collegiali (riproponendo, di fatto, il disegno di legge Aprea) e in generale allo status giuridico della figura docente. Quasi preventivamente, ne è stata contestata, infatti, la retorica della partecipazione, come a voler ribadire il concetto che la "buona scuola" non si costruisce con un questionario.
E la faccenda non riguarda certo la scarsa digitalizzazione della classe docente, quanto, si immagina, un’insoddisfazione crescente rispetto a quei metodi meccanicistici, tutti volti alla risoluzione di test, che le politiche dell’Istruzione impongono da alcuni anni orsono alla scuola, sia nella valutazione degli alunni, attraverso le prove Invalsi, sia, come in questo caso, nella possibilità di dialogo tra le istituzioni.
La "scuola-azienda" del premier mira a un’immagine di eccellenza, da perseguire, tra l’altro, con la pubblicazione dei portfolio dei singoli dipendenti, in modo da poter discernere i buoni insegnanti, dai mediamente buoni o addirittura dai "cattivi" e far sì che ogni dirigente, in linea con i principi di "autonomia scolastica", abbia la possibilità di selezionare "autonomamente" la propria squadra vincente…
Eppure rispetto alle attuali emergenze della scuola, sono in molti a credere che quest’ultima necessiti di tutto fuorché di un’esasperata concorrenza tra gli insegnanti, in tal modo costretti a contrattare "fuori dalla classe" la loro validità e il loro valore con crediti e certificati di formazione per emergere da una situazione che Renzi definisce di " grigiore", come se il vero problema da risolvere fossero gli insegnanti nel loro modo di operare.
Conservatori o meno, strenui difensori dei sindacati e non, di fronte alle "offerte" del nuovo governo ci si domanda sempre dove sia il trucco. Come quando dietro la promessa di porre fine, entro settembre 2015, al precariato di 150.000 aspiranti al ruolo, si scoprono contratti "snaturati", che prevedono l’insegnamento di materie diverse da quella in cui si è abilitati (un’anomalia già applicata nelle nostre scuole per riempire i vuoti sulle cattedre di sostegno) e a patto di una "disponibilità geografica".
Forse Renzi avrebbe dovuto scegliere un titolo differente da dare alla propria riforma, laddove il malinteso pare sia generato in primis dal principio stesso di "bontà" che, ivi tradotto in termini di efficienza, competitività e concorrenzialità, disattende le aspettative di coloro i quali attribuiscono alla scuola una funzione educativa estranea a certe dinamiche di mercato, prediligendo a queste ultime la cooperatività, la solidarietà, la compresenza e l’uguaglianza.
La buona scuola di Renzi collide, così, con quella dei suoi attori principali, esattamente come l’immagine di un altro Matteo, il santo dipinto da Michelangelo Merisi da Caravaggio agli albori del Seicento, fu causa di dissenso e rifiuto da parte dei membri della congregazione di S. Luigi dei Francesi a cui era destinata l’opera.
Nello sfortunato dipinto, distrutto nel 1945 dai bombardamenti su Berlino, il santo, ritratto in vesti e pose molto distanti dal decoro classico della pittura devozionale, è materialmente guidato dall’angelo nella scrittura del Vangelo: il tema sacro dell’ispirazione viene qui riproposto in una dimensione più umana e realistica, in cui pare che l’evangelista stia addirittura imparando a scrivere, lasciandoci intendere il suo analfabetismo.
Alle mani dei tecnocrati che hanno redatto il documento "La Buona Scuola", gli insegnanti avrebbero preferito si affiancassero quelle di coloro che nella scuola ci lavorano da sempre, per fornire risposte in merito alla questione dei lavoratori "Quota 96" e magari approfondire tematiche come l’obbligatorietà delle attività alternative nelle scuole in sostituzione delle ore di religione.
E se proprio questa riforma buona non è, ci si potrebbe augurare almeno che la questione del merito riconduca, come nel dipinto, a una dimensione più "umana" del lavoro, parola che troppe volte si confonde con qualcos'altro, a seconda dei punti di vista: passione o sacrificio.
Ma chi l'ha detto che bisogna essere per forza dei santi martiri o degli eroi per fare qualcosa di buono e bello nella vita?
Piera Scognamiglio