Non raccontiamoci storie. I Fratelli musulmani, il cui candidato ha vinto l'elezione presidenziale in Egitto, non sono una organizzazione democratica. Non erano sulla piazza Tahrir, al Cairo, agli inizi della rivoluzione. I Fratelli musulmani, impegnati in uno strano gioco dove i militari, pur di essere lasciati liberi di trafficare (in campo economico, finanziario...), avevano già abbandonato loro tutta una parte delle prerogative (sanità, educazione...) normalmente attribuite a uno Stato, hanno cominciato a fare di tutto per frenare il movimento di piazza.
Ricordo — era ancora il 20 febbraio — un edificante incontro nel loro Quartier generale, in via El-Malek El-Saleh, con Saad al-Hoseiny, membro della direzione strategica della Fratellanza, la cui prudenza, per non dire l'ambivalenza o addirittura l'ostilità, saltavano agli occhi davanti alla domanda di diritti e di libertà che si elevava dal popolo insorto.
Peggio ancora, non verrà ricordato mai abbastanza che l'organizzazione, di cui un pallido apparatchik sta accedendo alla testa della più grande nazione araba, è nata, alla fine degli anni Venti, come una setta totalitaria, di ispirazione nazista, e che il suo fondatore, Hassan al-Banna, non perdeva occasione di includere Adolf Hitler, dopo Saladino, Abu Bakr o Abdelaziz al-Saud, nella dinastia dei «riformatori» che con la loro «pazienza, fermezza, saggezza e ostinazione» hanno saputo guidare l'umanità.
Lungi dall'esser lavato con il passare del tempo, questo «peccato di gioventù» ha continuato ad essere reiterato, confermato, teorizzato: Yusuf al-Qaradawi, guida attuale dei Fratelli musulmani e maestro, fra l'altro, di un certo Tariq Ramadan, non ha forse, nel gennaio del 2009 — in un intervento su Al-Jazeera, scoperto e diffuso dall'eccellente Middle East Media Research Institute (Memri) — presentato Adolf Hitler come l'ultimo nato dei «rappresentanti di Allah», che scendono regolarmente sulla Terra al fine di «punire» gli «ebrei» per la loro elevata «corruzione»?
Desidero sottolineare, insomma, che ogni velleità di presentare l'elezione di Mohammed Morsi come il segno, in un modo o in un altro, di una «avanzata democratica» o di un «progresso», sarebbe sconveniente o odiosa. Nel migliore dei casi, è la riproposizione del patto stretto, sotto Mubarak, fra le due forze che, da decenni, assoggettavano l'Egitto e, nel peggiore, il trionfo di una linea «islamo-fascista» che il neopresidente ha tenuto a riaffermare, qualche ora prima dell'annuncio ufficiale della sua vittoria, dando un'intervista all'agenzia iraniana Fars, in cui prometteva un nuovo «equilibrio strategico regionale»; cioè, per parlare chiaro, l'instaurazione di un asse con l'Iran e Hamas.
Che dire di più? Ma nello stesso tempo... senza voler minimizzare la portata simbolica dell'evento, non sono sicuro, tuttavia, che esso significhi la fine della primavera egiziana. Per due ragioni.
Sorvoliamo sul fatto che Mohammed Morsi abbia ereditato una presidenza di cui sta al Consiglio supremo delle forze armate definire profilo e poteri e che, al traguardo, finirà molto probabilmente con l'esser ridotta a una conchiglia vuota.
C'è un primo elemento che sembra sfuggire ai commentatori catastrofisti del dopo-elezione: una buona metà dell'elettorato ha rifiutato, al secondo turno, di scegliere fra la peste post-Mubarak e il colera islamista new look. E c'è un secondo elemento, correlativo: il peso, al primo turno, dei tre candidati (Hamdeen Sabahi, Amr Mussa, Abul Futouh) che, nel momento stesso della scelta, esprimevano il doppio rifiuto, nettissimo da parte dei primi, più incerto da parte dell'ultimo, di un ordine politico in cui la sinistra eredità di al-Banna non faceva più legge.
Concretamente, questo vuol dire che l'islamismo sedicente «moderato» del presidente eletto rappresenta poco più del quarto degli iscritti. O meglio: che nell'odierno Egitto esiste un ampio «partito moderno» che, per quanto diviso, attraversato da contraddizioni, rappresenta la metà dell'elettorato. Meglio ancora: che è in corso una battaglia di cui nessuno conosce l'esito e che, come al solito, vedrà da un lato il blocco militare-islamista e dall'altro il blocco inedito che, sebbene in ordine sparso, non rinuncia allo spirito, alla speranza, della Comune di Tahrir.
Le rivoluzioni non sono eventi ma processi. Questi processi sono lunghi, conflittuali, disseminati di avanzate improvvise e indietreggiamenti scoraggianti. Ma nulla dice che nell'Egitto di questo inizio secolo non si verificherà quanto già accaduto in altri grandi Paesi, eredi di civiltà immense e che hanno trovato il tempo necessario per generare il loro avvenire: la Francia, per esempio, che dovette sottomettersi a un Terrore, a un contro-Terrore, a due Imperi, a una Comune repressa nel sangue, prima di veder nascere la Repubblica. O i Paesi usciti dal lungo coma comunista e che procedono a tentoni verso una democrazia la cui prima tappa è stata il ritorno al potere, attraverso le urne, di un Partito comunista o, peggio, l'apparizione di una chimera chiamata Putin, sinonimo di crimini che non hanno nulla da invidiare a quelli degli zar rossi del secolo scorso.
Dovremmo rimpiangere la caduta del Muro, a causa della guerra in Cecenia? Il 1789 e la gloriosa Gironda, a causa dei massacri del Settembre 1792? Certo che no. Per questo, le «lezioni di tenebra» che ci arrivano attualmente dal Cairo non mi fanno rimpiangere il soffio della primavera di Tahrir. La promessa è sempre viva. La lotta continua.
BERNARD-HENRY LEVY
(dal Corriere della Sera del 27 giugno 2012)