In occasione dei 50 anni dalla morte di Ernesto Rossi, 9 febbraio 1967,il Partito radicale ha organizzato un dibattito (guarda il VIDEO da radioradicale.it) per ricordarne la figura e sottolineare la stringente attualità del suo pensiero e delle sue battaglie.
Qui di seguito riproponiamo invece un ricordo che ne fece Marco Pannella nel corso di una manifestazione organizzata dai radicali nel ventennale della scomparsa nel 1987. Il testo trascrititto fu pubblicato per la prima volta su Quaderni Radicali 56/57, dicembre 1997 e poi riprosto in Quaderni Radicali 112, Pannella "un canestro pieno di parole)
In ricordo di Ernesto
di MARCO PANNELLA
L’ultimo incontro che ebbi con Ernesto Rossi fu al Policlinico di Roma. C’era anche la moglie. Ernesto era in piedi, in pigiama, doveva essere il 5 o il 6 febbraio. Eravamo alla vigilia della manifestazione con cui i radicali aprivano l’anno 1967 come anno anti-clericale all’Adriano. La scelta del cinema romano era impegnativa, perché molto più grande del ridotto dell’Eliseo dove ci riunivamo dal 1949, e per questo circolava più di una preoccupazione. Anche Ernesto Rossi − che avrebbe dovuto presiedere la riunione − aveva qualche dubbio, ma proprio in ospedale si ricredette dopo che un’infermiera, che forse non aveva mai prima d’allora ascoltato uno dei nostri convegni, gli aveva detto che sarebbe andata anche lei all’Adriano.
Attraverso quella infermiera, che forse apparteneva a quel ceto di Roma composto di trasteverini o gente del Testaccio, in prevalenza comunisti, gente che leggeva «ABC» e non «L’Espresso», questo tipo di popolo aveva comunicato al cuore e all’intelligenza di Ernesto Rossi che qualcosa di nuovo stava accadendo. E che non era sulla borghesia “liberale” che si poteva contare per passare dal ridotto dell’Eliseo alle piazze. È con questo popolo che si è vinto il referendum del divorzio e si è data forza a tutte le pagine della politica radicale, che trovano nella storia, nella vita, nel pensiero e nell’umanità di Ernesto Rossi le ragioni della loro stessa possibilità e del loro stesso futuro ancora oggi.
Ricordo poi un altro incontro con Ernesto, precedente quello dell’ospedale. Lo ricordo, dopo aver discusso il testo e le modalità di un volume per il lancio di quell’anno anti-clericale, mentre apre l’armadio nell’ingresso dell’ appartamento, con il barboncino Biri II, che abbaiava fragorosamente, e tira fuori il suo contributo per quella campagna. Penso che il lascito di Ernesto sia anche questo e sia vivo tuttoggi.
Oggi è difficile non commuoversi, ricordando Ernesto Rossi, e con lui Altiero Spinelli e altri ancora. Tutti i nomi che abbiamo evocato da questo palco, sono i nomi di un’Italia che può scomparire. Sono i nomi di tutta una Italia che può vivere ed essere quella degli anni Novanta e del Duemila. Sono le persone presenti qui attorno a noi. Non sono tanti, sono pochissimi coloro che sono mancati alla necessità dei nostri racconti, che sono poi spesso le necessità delle nostre speranze. C’è da chiedersi se non rischiamo a volte di lasciarci andare alla facilità dei sentimenti e dei risentimenti. Credo che la storia di questi vent’anni, abbia riconfermato che Ernesto Rossi era ed è stato un uomo di governo.
Dopo le tante teorizzazioni che abbiamo sentito in questi anni, con rivoluzionari che sono pure conservatori, rimane il fatto che governare è scegliere. Ebbene Rossi ha saputo governare come nessuno i problemi e le urgenze che erano proprie della nostra società. Coloro che hanno cercato e cercano sempre di rimuovere la realtà del Partito radicale, sentono anche il bisogno di rimuoverne la storia. E così facendo, rimuovono poi presenze, realtà e nomi della cultura e della scienza.
A leggere solo l’elenco dei costitutori del Partito radicale, recupereremmo nomi del diritto, dell’economia politica, della storia delle religioni, che sono tutti abrogati. Non ve ne è eco alcuna, se non quando ogni tanto Giovanni Spadolini - per sua e nostra fortuna - scrive articoli come quello di ieri, forse il più pregnante delle rievocazioni di Ernesto Rossi. Di Rossi, Scalfari sottolinea invece la differenza dagli inutili intemperanti quali noi siamo. Dimenticando che proprio Rossi tentò pure di fare l’incendiario e dovendo provocare sul Concordato un dibattito che non riusciva a imporre nel paese, andò a spulciare dalle pagine di Dante a quelle di Garibaldi tutte le frasi più volgari contro la Chiesa. La sua era una provocazione, che determinò l’intervento della polizia e creò scandalo: ma grazie anche a questo, la battaglia anti-concordataria fu rilanciata alla grande.
Ma cosa è stato Ernesto Rossi? A tutti ho sempre detto: badate, è l’unico leader politico che abbiamo. Mentre gli altri, pur lodandolo, si rammaricavano che lui non capiva di politica. Era l’esatto contrario: capiva e come la politica. La sua passione era civile e, per me, è stato l’unico vero riferimento che ho avuto. Ogni settimana lo leggevo su «Il Mondo», ma come me erano solo venti-venticinquemila persone a leggere quel giornale. Il resto, l’Italia intera si nutriva d’altro. E ogni settimana da Ernesto Rossi veniva forza intellettuale, chiarezza, puntualità di lotte. In quei dieci-quindici anni è riuscito a render forte una sorta di oasi, una Giarabub dell’anti-fascismo dell’oggi.
Un anti-fascismo di speranze e non di odio, l’anti-fascismo di uno che non ha perso più un giorno del suo tempo ad esercitarlo contro neofascisti e monarchici, e ha preferito dirigere altrove il suo vigore polemico. E l’altrove era la Chiesa, che al contrario di fascismo e monarchia non era ancora caduta. Era la gestione politica pseudo-antifascista dei post-fascisti, tutti eredi in economia del ventennio. Più ancora della battaglia anti-monopolistica che Ernesto condusse, c’è un’altra lotta che l’ha visto puntare lancia in resta contro il cuore dei problemi dello Stato moderno. Mi riferisco ai suoi attacchi contro le bardature corporative di cui individuava la tremenda attualità, la loro forza distruttrice della democrazia.
La polemica di Ernesto Rossi era anti-statalista contro una sinistra che aveva nazionalizzato solo se stessa e che aveva smesso di nutrirsi della intelligenza storica del meridionalista Salvemini. Il quale già ai suoi tempi denunciava l’industrialismo, la distorsione delle male alleanze fra aristocrazia e ceti operai nel Nord.
I problemi con cui settimanalmente Rossi ci faceva fare i conti erano questi. Il fascismo aveva seminato e oggi la essenza in economia di quel tipo di Stato diveniva una giungla sempre più rigogliosa e pericolosa; abitata da una fauna temibile. Rossi ci insegnò subito a diffidare di uno dei grandi miti del dopoguerra e cioè di Mattei e della sua creatura, l’Eni. Di come la corruzione si andava erigendo a moralità della politica.
Ernesto Rossi ha pagato salato per le sue posizioni. Su «Rinascita», Roderigo di Castiglia (Togliatti, ndr.) si interrogava se certe frasi erano di Mussolini o di Rossi. Questo era il livello degli attacchi che gli erano mossi, perché la colpa di Rossi - come quella di Salvemini o di Pannunzio - sarebbe stata quella di aver “tradito”.
Rossi non faceva sicuramente parte di quel ceto dirigente pseudo-antifascista che dell’antifascismo ha fatto strumento di potere. Rossi non era di quelli che scriveva in favore della legge Scelba per lo scioglimento dei partiti neo-fascisti. Lui si occupava d’altro, e se ne occupava per la sostanza della lotta di libertà che portava avanti. [...] Ernesto è riuscito a dare coraggio coi suoi articoli, a dare speranza per quello che si poteva fare. La grande lezione per cui la sciatteria non è tolleranza; la tolleranza si accompagna piuttosto al rigore, alla intransigenza.
I vent’anni che sono trascorsi ci fanno dire che senza l’apporto, senza la lettura e senza la conoscenza di questa storia − europea e italiana − di cui Rossi è parte, non ce la potremo mai fare ad avere democrazia politica. Oggi, ciò richiede lo stesso entusiasmo che sino alla fine ha avuto Ernesto Rossi. Con questo entusiasmo dobbiamo procedere a fatti puntuali: può essere la fondazione Ernesto Rossi, con il compito di assicurarci di cosa accade degli oggetti “fondati”, perché se finiscono accantonati e riservati solo alla ricerca tecnica questo non basta. Allora, quando ci si accusa di sopravvalutare i mass media, dobbiamo invece rispondere che li abbiamo sottovalutati. Lo dimostra il fastidio che personalmente ho provato nel vedere che, nel ventennale dalla sua morte, non siamo di più di quanti − tre giorni dopo la morte − erano all’Adriano a quell’appuntamento che Rossi doveva presiedere.
Siamo tanti oggi, è vero: ci siamo tutti. Ma qui si è riunita una famiglia elettiva, mentre l’Italia del 1967, del divorzio, l’Italia popolare di Claudio Villa e Mimmo Modugno con cui abbiamo avuto le vittorie, manca. In questo, c’è forse il limite della intelligenza storica di Ernesto Rossi e degli altri: allora c’era la sfiducia rispetto al popolo; si pensava che in fondo la battaglia potesse essere vinta dalla parte della classe dirigente disposta a divenire meno sporca e meno stupida. Era una impostazione liberale, non necessariamente democratica come dimensione. Credo, però, di poter dire che noi oggi non abbiamo dilapidato quanto Ernesto e gli altri non ci avevano lasciato. Il mestiere di corvi lo lasciamo ad altri. Quanto, piuttosto, avevano lasciato a tutti noi: hanno affidato alla storia, al paese, alla loro memoria valori attuali, valori urgenti per l’oggi.
Siamo di più di ieri, non siamo certo migliori di quelli di ieri. Quel fastidio, quella rabbia che ho avuto arrivando mi è passata; ma mi resta il dolore di una repubblica che non onora tutto questo. Ma anzi lo rimuove, lo censura e lo ignora. [...] Se oggi mi chiedo − e dico quello che penso − se non debba di nuovo ricandidarmi alla guida del partito al congresso, lo faccio malgrado il presente apparente. E grazie a questo pungolo, questa lenta continuità che mi attraversa di Ernesto e degli altri, che ci hanno insegnato come ogni giorno si ricomincia magari da zero, ma si ricomincia con lo stesso carico di speranze arricchito dalla notte, dalla traversata nel deserto per cui ci si è mossi nel primo metro del lungo cammino. E di questo li ringrazio.
(da Quaderni Radicali 56/57 e Quaderni Radicali 112)