La conversazione che Mario Signorino ebbe con il direttore Giuseppe Rippa, pubblicata sul numero 88 (dicembre 2004) di Quaderni Radicali, che qui riproponiamo in ricordo del fondatore di Amici della Terra scomparso a Ferragosto.
Com’è accaduto che il movimento dei Verdi in Italia si sia trasformato nella mosca cocchiera dell’estremismo politico occidentale? Eppure, l’ambientalismo si era affermato nel nostro Paese su impulso dei radicali e si contrassegnò in una prima fase per la sua impostazione pragmatica e fondamentalmente liberale. Le ragioni della sua trasformazione sono indagate nella conversazione che segue, dove il fondatore degli “Amici della Terra”, Mario Signorino, racconta a Giuseppe Rippa le tappe di un tormentato percorso politico.
Abbandonata nei fatti ogni sincera attenzione per l’ambiente, i Verdi sembrano coltivare il luogo comune col quale seducono i mass media senza tuttavia conquistare il consenso di un gran numero di elettori. Con una predicazione per lo più apocalittica, il loro è un messaggio di Cassandre da strapazzo che non esita a diffondere paure spesso ingiustificate scientificamente: valgano per tutte le campagne anti-Ogm e contro l’elettrosmog. A forza di gridare “al lupo”, si sa, perdono credibilità anche le denunce serie e si disarma la società di fronte ai rischi effettivi. Al fondo di tutto, il messaggio che ha prevalso tra i Verdi nostrani interpreta lo sviluppo come un danno in quanto tale e si associa alla polemica no-global impegnata a occultare gli inequivocabili dati positivi registrati negli ultimi anni: dal miglioramento delle condizioni di vita dei popoli alla riduzione della povertà dei Paesi in via di sviluppo. E secondo la migliore tradizione settaria, respinge il dissenso interno come nel caso di Biørn Lomborg, autore del volume L’ambientalista scettico, scaricandogli contumelie a non finire ben poco convincenti a dire il vero.
Come si esprimeva proprio Mario Signorino in un intervento dell’aprile scorso, all’XI congresso nazionale degli “Amici della Terra”, “la protesta paga facile… Basta gridare più forte degli altri e avere garanzie di visibilità; ma questa per l’ambientalismo di rendita, è assicurata: i media sono complici naturali di tutti gli allarmismi”. Luigi O. Rintallo
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In molti si chiedono come mai, in Italia, le dimensioni elettorali dei Verdi siano quasi irrisorie (attorno all’1-2%). Eppure l’ambientalismo ai suoi esordi sembrò introdurre attraverso la tematica ecologica un modo nuovo di fare politica. In seguito, però, non ha saputo esprimere a pieno le sue potenzialità, finendo per partecipare in modo anche abbastanza squallido agli equilibri di potere. Com’è potuto accadere?
Le problematiche ambientali nascono in un periodo recente, agli inizi degli anni ’70 negli USA. L’ambientalismo politico, tra l’altro, si caratterizzava per la critica ai partiti tradizionali che a detta dei verdi si disinteressavano dei problemi concreti. Col tempo – e non solo in Italia – l’ambientalismo si è interessato sempre più a questioni politiche tradizionali che ai temi specifici. Dal mio punto di vista, questo lo considero un errore perché in tal modo ci si è ridotti a dare copertura ai no-global. Una copertura, diciamo così, genericamente “buonista”, che poi è stata ampiamente superata conducendo i Verdi a divenire quasi una componente del movimento no-global.
Ne sarebbero stati dunque risucchiati…
Il movimento ambientalista sviluppa agli inizi degli anni ’70 con elementi che provenivano dal ’68 ed elementi più tradizionalisti che risalivano a una storia più remota: naturalisti, conservazionisti ecc. I conservazionisti della natura sono la vera presenza storica che però non hanno alcun legame con il movimento nuovo dell’ambientalismo politico. Fin dagli inizi c’è stata una confluenza di elementi di sinistra. Anche se poi, e questo è uno dei paradossi, le problematiche ambientali non sono nate a sinistra, che anzi negava loro appoggi e giustificazioni di tipo storico o teorico. Era la sinistra operaia, per esempio, ad essere portatrice della cultura dell’industria, più che la destra. A livello internazionale, sarà proprio la destra a dare il via alle politiche per l’ambiente (nel ’69-’70), al contrario di quanto avviene in Italia dove la destra si muoverà con vent’anni di ritardo rispetto agli USA. Meno marcato è invece il ritardo rispetto alla costituzione di un movimento ambientalista. Infatti, in Italia il movimento si sviluppa a metà degli anni Settanta e acquista una particolarità che non ha riscontro negli altri Paesi: il primo apporto forte alla nascita di un ambientalismo politico in Italia è di tipo radicale, cioè proviene dal Partito radicale.
Questo è importante dirlo, mentre perfino nelle ricostruzioni storiche questa vicenda scompare. Mi ha molto colpito l’intervento su «Ideazione» di settembre-ottobre 2002 di Renato Tirabassi, dal titolo Il sole che non ride più in cui viene legittimato tutto il filone marxista, mentre è totalmente rimossa la tradizione ambientalista radicale. Eppure proprio i radicali erano i titolari di quel simbolo: il Sole che ride…
È un dato di fatto. L’ambientalismo politico in Italia non si è affermato tanto sui temi della conservazione della natura, quanto piuttosto nella polemica sul nucleare. E in Italia essa è stata portata indubbiamente avanti dal Partito radicale e dagli Amici della Terra; su questo non c’è dubbio. Fra l’altro la vicenda si intrecciava con una vicenda parlamentare. Quando incominciammo ad intervenire era in via di gestazione in Parlamento il programma nazionale che lanciava il piano nucleare e ha coinciso con l’entrata dei radicali in Parlamento.
Qualcuno dice che in fondo il piano energetico nazionale non andò in porto, più che per l’intensa azione degli ambientalisti, dei radicali ecc., per la totale incapacità e non volontà da parte del governo a farlo.
Da come l’ho vissuta io, si trattava di un programma in corso di elaborazione da tempo (basti pensare al precedente del prof. Felice Ippolito). Già prima della nascita del movimento ambientalista vi era stata una resa dei conti, in cui però c’entravano altri. C’entrava il petrolio e qualcos’altro che si materializza nella disgraziata vicenda di Ippolito…
Del resto, proprio sul caso di Felice Ippolito, segretario del Comitato nazionale per l’energia nucleare, il cui processo negli anni ’60 segnò il blocco dello sviluppo della produzione dell’energia nucleare in Italia, gli ambientalisti ante litteram mostrarono maggior solidarietà di quanto abbiano fatto altri settori politici…
Personalmente non avevo prevenzioni antinucleari. Allora lavoravo con Parri ed Ernesto Rossi e mi ricordo di aver fatto il ragazzo di bottega nell’organizzare una serie di iniziative a sostegno di Ippolito. Il nucleare allora era sinonimo di progresso tecnologico e quindi in una sinistra liberale c’era simpatia. Comunque, nel ’76, ciò che sconvolse ed ebbe effetti rilevanti fu l’intervento della pattuglia di parlamentari radicali, dal momento che non si era abituati ad essere contestati sulla materia tecnica. E stiamo parlando di tecnologie che fra l’altro ancora oggi risultano incomprensibili alla quasi totalità dei parlamentari. Alla vigilia dell’approvazione della relazione conclusiva sul piano energetico, predisposto dall’allora ministro Donat Cattin, i radicali intervennero nel merito e bloccarono l’iter presentando una serie di obiezioni. Da quel momento, la loro iniziativa diventa incessante e cresce l’allarme dei partiti, in testa i socialisti che sulla vicenda temono di perdere voti.
Agli occhi dell’opinione pubblica, i radicali apparvero allora come la forza politica che conduceva la battaglia antinucleare in Italia e questo ne aumentò probabilmente i consensi. Ricordiamo che tra le iniziative ci fu la prima richiesta di referendum sul nucleare che finì sulle prime pagine dei giornali. Il quotidiano «Repubblica» dedicò non solo la prima pagina ma anche un paginone interno e nelle elezioni del 1979 i radicali passarono dall’1 al 3,5%. I socialisti ritennero che quei voti erano stati tolti a loro e di conseguenza dovettero tener conto della presa che nel loro elettorato potevano avere i temi ambientali e la stessa opzione anti-nucleare. Non dimentichiamo che l’indagine parlamentare sul nucleare fu condotta dalla commissione industria della Camera presieduta da Loris Fortuna, che ha avuto una storia da ex radicale.
Da parte sua, il Pci faceva il cane da guardia al nucleare, mentre la Dc era messa ai margini. Non credo dunque alla storia che il governo non voleva. Il governo e le forze politiche stavano gestendo il programma nello stesso modo in cui veniva gestito qualsiasi altro programma: lottizzando. Lottizzavano anche le tecnologie: si poteva infatti scegliere tra il reattore ad acqua pressurizzata e quello ad acqua bollente. Ovviamente scelsero entrambi i reattori e ne aggiunsero un terzo che pareva molto gradito ai sindacati: il reattore ad acqua pesante. Intenti ad intrallazzare sulle tecnologie nessuno s’opponeva. Il problema è che non avevano tenuto conto del consenso: nessuno dei politici e dei tecnici che si occupavano del programma era in grado di fronteggiare una controversia pubblica. Di qui il collasso del sistema alla prima grossa manifestazione di dissenso sociale dopo il ’68.
Da questo punto di vista, l’ambientalismo italiano ha caratteri diversi rispetto a quello europeo essendosi affermato lungo percorsi politici che poco hanno a che fare con quelli dei Verdi tedeschi o francesi…
L’ambientalismo politico in Italia aveva una caratteristica unica in Europa. Agli inizi la sua impostazione era di tipo politico soprattutto liberale: c’eravamo noi di Amici della Terra e i radicali… Per quanto riguarda poi le liste elettorali verdi, alla loro origine c’è Pannella. Era, se non erro, il 1982, nel periodo dominato ancora dall’iniziativa radicale. In quell’anno ero uscito dall’Associazione e facevo parte della segreteria nazionale del Partito radicale. Allora Pannella mi esortò a darmi da fare per far nascere le liste elettorali: ubbidii anche se non condividevo quella scelta. Preparai il tutto e passai poi la mano a Rosa Filippini perché non volevo essere coinvolto in quel tipo di movimento. Restava incomprensibile quale fosse l’opportunità per i radicali di avere una lista concorrente su un terreno fino allora coperto soltanto da loro.
Le liste verdi videro dunque la luce…
Sì, tuttavia non va dimenticato che allora tutti erano contrari. Erano favorevoli solo alcuni gruppetti detti di base, mentre Legambiente era contraria, anche perché era un’associazione nata nell’ambito del Pci e quindi intendeva evitare di porre problemi a quel partito. L’esordio fu nelle votazioni regionali del 1985, quando Pannella e i radicali presentarono le firme per le liste verdi che consentirono ai Verdi di partecipare per la prima volta alle elezioni con un risultato attorno al 2%. Nell’87 ci furono le elezioni politiche, nelle quali i Verdi presero quasi il 2,5% e poco dopo ci fu l’operazione Arcobaleno, cioè l’ingresso dei gruppi dell’estrema sinistra (Democrazia proletaria, i capanniani ecc.) tra i Verdi. Tale presenza c’era già, così come vi erano pure gruppi di autonomi: gli stessi che parteciparono alla battaglia a Montalto di Castro. Assistemmo così al trasferimento in forze di personale politico di estrema sinistra nei Verdi, con in più qualche radicale.
Senza colpo ferire?
Cercammo di opporci al fatto che gruppuscoli di sinistra subentrassero e si appropriassero del patrimonio elettorale dei Verdi. Non a caso, alle elezioni europee del 1989 si presentarono due liste verdi: il Sole che ride e Verdi Arcobaleno, che totalizzarono insieme oltre il 6%. Il Sole che ride, col suo 3,8%, rappresentava agli occhi della gente gli ambientalisti che non si schieravano a sinistra, ritenendo che non avesse più significato schierarsi da una parte o dall’altra. Quello fu il momento di maggiore crescita dei Verdi.
Possiamo dire che da quel momento si era introdotto nel movimento verde una costola di matrice marxista-leninista…
Direi protestatario di estrema sinistra. Fra l’altro, in Italia tanti militanti dell’estremismo politico stavano uscendo in quegli anni dall’esperienza tragica degli anni di piombo. Questa operazione fu una delle cause principali del tramonto o della decadenza politica del movimento ambientalista, che si manifestò poco dopo alle successive elezioni politiche quando i Verdi crollarono al 2%, più o meno la stessa percentuale di oggi.
Col declino, avviene anche un altro fenomeno: sempre più gli elementi di area radicale vengono marginalizzati…
Veramente Adelaide Aglietta manteneva il suo seggio nel Parlamento europeo…
Ma comunque il movimento verde cambia sostanza e si trasforma in qualcosa di diverso: cominciano a esserci i congressi pilotati, si cede a forme di qualunquismo…
Dobbiamo prima completare il processo, perché non vi è solo la vicenda partitica che pure è fondamentale. Oltre all’operazione dei Verdi Arcobaleno, ve n’è un’altra che riguarda il piano associativo e mi riferisco al predominio nell’associazionismo verde di Legambiente, una organizzazione nata dal Pci. Legambiente non partecipò alla fase decisiva di sviluppo dell’ambientalismo politico, perché anche dopo la sua formazione per oltre un decennio ha avuto come primo riferimento il Pci anziché il movimento verde. Si pensi, ad esempio, alle due questioni centrali emerse negli anni ’80: la caccia e il nucleare. Ebbene, su questi temi controversi Legambiente era sfuggente perché costretta a barcamenarsi fra il movimento e il partito, assumendo posizioni che non le consentivano certo di assumere un ruolo di leadership. Col tempo, grazie alle risorse provenienti dalla rete dell’Arci (poté fare una rivista immagino pagata dall’Arci), Legambiente riuscì – a partire dagli anni ’90 – ad imporsi, dando una connotazione prevalentemente di sinistra al movimento ambientalista in Italia.
Una sinistra di derivazione comunista…
Naturalmente, anche perché nel frattempo lo stesso Pci stava vivendo una certa evoluzione che lo porterà, dopo il crollo del Muro di Berlino, a cambiare nome.
Per quanto riguarda invece le trasformazioni all’interno del partito dei Verdi e l’assunzione di posizioni contraddistinte sempre più da dinamiche tipiche di certo estremismo politico degli anni ’70…
Fin dagli esordi il movimento ha dovuto confrontarsi con un assemblearismo che era sfrenato solo in apparenza. Ricordo che ci trovavamo di fronte ad assemblee dalla composizione più variegata possibile, dove si discuteva di un insieme di argomenti a nostro avviso pazzesco: pacifismo, altre cose… Era la tipica assemblea “alternativa” tra virgolette, non c’era neanche l’ombra di una leadership o di una regola democratica, e di conseguenza ne scaturiva un magma incontrollabile. Ma era tale solo ai miei occhi, perché in realtà agli occhi di chi la viveva quella situazione era controllabilissima, da parte di un ristretto numero di persone.
Potremmo riferirci a un vecchio adagio, secondo il quale taluni guardano la situazione e invocano: “imbroglio aiutami”…
Il caos era apparente ma sotto c’era l’ordine per antonomasia, l’ordine dei numeri. Sebbene malvisto, alla fine in queste assemblee si giungeva al voto. E una volta identificati i votanti, bastava gestire le tessere, per lo più poche, che consentivano poi di decidere l’attribuzione dei posti. Credo che quello dei Verdi sia stato il partito in cui fosse più facile, in forza dei pacchetti di tessere, condizionare l’ingresso in Parlamento. Certo non importavano i contenuti e tanto meno la definizione di una diversa politica…
C’era una promiscuità molto avanzata…
Per certi versi ingovernabile coi mezzi della politica. Dagli anni ’90 in poi, si capisce che non c’è nulla da fare per una opposizione interna di natura riformista in grado di resistere all’azione di Legambiente. Fino allora con Rosa Filippini lo schieramento di derivazione non comunista, diciamo così, aveva conservato la maggioranza nel gruppo parlamentare. Anche perché aveva funzionato l’alleanza con Pecoraro Scanio, che si presumeva avere un programma alternativo a quello di Legambiente. Ben presto si scoprirà che non tutti gli oppositori di Legambiente erano interessati alla questione dei contenuti politici. Ma se uno schieramento non si costruisce sui contenuti su che altro si può costruire? Col senno di poi, si può dire che l’opposizione all’ala comunista, non dico che era peggio, ma di fatto era da essa indistinguibile. Tant’è vero che nell’arco di tre anni – dal 1989 al 1992 – i Verdi si riposizionano nell’area dell’estremismo, estromettendo l’ala riformista. La svolta si ha nel 1991, con la guerra del Golfo, quando Rosa Filippini viene di fatto espulsa per essersi dissociata dalla posizione prevalente, contraria all’intervento della coalizione in Iraq sebbene sotto l’egida dell’Onu. Da parte sua, Pecoraro Scanio riuscì a battere a poco a poco il fronte della sinistra comunista, salvo poi ritrovarsi oggi su posizioni ancora più estreme.
È questo un indice di cinismo nella gestione del potere o altro? Nel senso che Pecoraro Scanio pur avendo fallito gli obiettivi politici si adatta alla situazione?
Non direi che ha fallito. I suoi obiettivi coincidevano con quelli dell’ala riformista, solo che quando quest’ultima è stata estromessa Pecoraro Scanio ne ha raccolto il testimone riuscendo, dopo alterne vicende, a prendere il controllo del partito ed ora lo gestisce in modo tale da sopravvivere nonostante lo scarso peso elettorale. Tanto che al tavolo delle trattative prima del voto spunta poi un certo numero di parlamentari.
Che fine hanno fatto dentro il partito verde i gruppi extraparlamentari? Sono ricomparsi personaggi come Mattioli…
Direi che sono abbastanza emarginati. Un ruolo lo ha svolto Ronchi, ma adesso anche lui ormai… Oggi il partito è dominato da Pecoraro Scanio: ha vinto lui.
Quando Pecoraro Scanio si fa megafono ora del giustizialismo ed ora di un pacifismo alla Vichy, all’insegna del più scontato anti-americanismo, indubbiamente coglie un’opportunità per coprire uno spazio politico. Al tempo stesso però fa un uso spregiudicato di un soggetto politico completamente denutrito di consapevolezza, contaminando irrimediabilmente le potenzialità del movimento ambientalista…
A parte la vicenda personale di Pecoraro, credo che qui si manifesti la caratteristica di una posizione oggi prevalente nel movimento ambientalista italiano, che è il frutto di una cultura politica propria di un’area che va al di là del partito dei Verdi. Dietro il giustizialismo, dietro il pacifismo anti-occidentale c’è tutta la retorica scatenatasi in Italia durante il periodo della crisi del sistema politico italiano negli anni di Mani pulite, quando in tanti si fanno forcaioli al seguito di Di Pietro giustiziere… Se a ciò aggiungiamo che dell’ambientalismo è rimasto solo quello espresso da Legambiente, si può dire che francamente è difficile rintracciarvi quelle potenziali novità che il movimento aveva espresso…
Da dove ripartire?
È assolutamente necessario combattere questo tipo d’ambientalismo. Penso, infatti, che se si è interessati a trattare il problema ambientale non ci si può che sentire danneggiati dall’essere identificati con posizioni come quelle descritte prima, che sono controproducenti per l’ambiente. Ovviamente, gli ambientalisti per così dire “ufficiali” non sono l’unico pericolo per il movimento verde, dal momento che l’altro è rappresentato da quei personaggi della destra che sono rimasti fermi culturalmente. In fondo sono proprio loro che danno la possibilità a questo tipo d’ambientalismo di imporsi e affermarsi…
Non è un caso che, per esempio, vi sia sintonia tra Alemanno e Pecoraro Scanio… Non è sintomatico?
Molto, anche se non è una novità. Se ad una rivista di estrema destra elimini la testata sembra davvero diretta da un verde apocalittico o da un qualunque no-global: solito attacco agli Usa e all’Occidente, al capitalismo e al libero mercato, e via di questo passo.
L’avversione al modello liberale accomuna tanto la destra che la sinistra estreme, che ignorano i dati positivi della globalizzazione per recitare la consueta litania oggi così di moda in certo neo-luddismo. Pecoraro Scanio, in tal senso, non fa che assecondare la moda… Ma dal punto di vista specificamente politico che danno produce una situazione del genere?
Intanto produce un grosso danno sulle questioni ambientali. Prendiamo la vicenda scandalosa dei rifiuti in Campania. Da parte degli ambientalisti si sono fomentate le peggiori tendenze di una società civile e politica e sempre a danno di una effettiva tutela ambientale: quando ci si intruppa con sindaci e parroci per impedire la localizzazione di un deposito di scorie, si ostacola la messa in sicurezza di tali rifiuti e quindi si espone l’ambiente a rischi evitabili…
Se guardiamo ad Acerra, i cui abitanti arrivano a occupare i binari intervenendo in modo devastante sulla vita collettiva, è da notare come questa città abbia raggiunto il massimo della capacità di produzione di inquinamento. Non è sospetto che dopo anni di insensibilità al riguardo, da parte loro si scopra improvvisamente la centralità del problema e ci si mobiliti contro gli inceneritori?
È impossibile non chiedersi come mai gli ambientalisti, spero in buona fede, non si rendano conto di svolgere talvolta il ruolo di utili idioti e di coprire chi ha interessi ben più concreti. Mettiamoci d’accordo. Uno dei punti di Legambiente è sempre stato la denuncia delle ecomafie. Penso che gli ambientalisti, compresi i “legambientini”, che fomentano il no agli impianti di smaltimento rifiuti, il no al deposito delle scorie radioattive, il no a tutto, creano le condizioni perché si estenda il potere illegale della criminalità. Perché dove non esistono margini di gestione legale è inevitabile che si generi illegalità.
O sono al servizio della Germania e di alcune regioni che fanno lo smaltimento, oppure…
Oppure fanno dei calcoli politici. Ritengo sia molto grave il fatto che gli ambientalisti che predominano oggi, abbiano creato questa forma di ideologia molto buonista in apparenza: in realtà, hanno ripreso tutti gli elementi del conflitto di classe interpretato come antagonismo totale con tutti gli elementi della tradizionale opposizione alla democrazia liberale dell’occidente, facendolo diventare senso comune. Cosicché nei salotti si abbracciano queste posizioni in modo acritico, sulla base anche della disinformazione o vera e propria falsificazione che i Verdi portano avanti e che gran parte dei mezzi di informazione rilanciano.
Quale spazio progettuale si può individuare per rimettere i temi ambientali all’ordine del giorno di una agenda politica finalmente libera da ideologismi e opportunismi?
Questo tipo d’ambientalismo non è riuscito a imporre la questione ambientale all’attenzione politica. I politici oggi continuano a non sapere nulla d’ambiente. Non è un caso che anche quando i Verdi hanno portato avanti le trattative per entrare in un governo, come è avvenuto con l’Ulivo, non c’è stata una trattativa sui temi ambientali. Non è successo come in Germania in cui essi sono entrati nel governo a seguito della promessa di abbandonare il nucleare entro vent’anni. Nel caso italiano non c’è stata una trattativa perché, ripeto, ai temi ambientali nessuno tiene davvero e men che meno certo ambientalismo. C’è stato un fallimento politico totale in questo movimento. Hanno conquistato l’opinione pubblica, fino a diventare senso comune, ma hanno perso completamente sul piano politico. La questione ambientale continua oggi a non esistere esattamente come trent’anni fa quando abbiamo incominciato a interessarcene. Prima ho provato a definire le mie posizioni di tipo riformista per distinguerle dalle altre.
Ritengo che tra le cause dell’insuccesso all’interno dei Verdi di tali posizioni, ci sia anche la chiusura rispetto a questi problemi da parte degli osservatori politici seri. Una posizione riformista ha bisogno per avere successo di interlocutori seri e attendibili nelle istituzioni o, per lo meno, nei pressi delle istituzioni: tra gli opinionisti, su giornali e tv… I “riformisti” sono stati danneggiati perché combattuti da sinistra. Con la vittoria del centrodestra ci siamo trovati in una posizione peggiore. Tutti si aspettavano che noi saremmo stati favoriti e invece non è stato così perché il ministro Matteoli s’è accordato con Legambiente, dimostrando quanto questo governo sia poco attento politicamente… Dall’altra parte, a sinistra, vi è l’occupazione di Legambiente che costituisce una lobby imbattibile che preclude l’affermarsi di un discorso autenticamente riformatore. Sono in grado solo di fare terra bruciata attorno a loro.
(tratto da Quaderni Radicali 88 dicembre 2004)