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18/11/24 ore

American vertigo, 
Trump il «traditore». Un leader discusso



di Bernard-Henri Lévy

(Corriere della Sera)

 

Il problema, se Donald Trump venisse eletto, sarebbe certamente la sua immensa volgarità (l’America ne ha viste tante, ma non ancora un presidente che allude alle dimensioni del suo pene nel corso di un dibattito televisivo). Sarebbe il suo odio patologico nei confronti delle donne (non raccomandò forse, a suo tempo, in una conversazione con l’architetto Philip Johnson riportata dal New York Magazine, di «trattarle come la merda»? E non ha appena detto di considerarle, quando hanno il volto di una giornalista che lo urta, come creature ripugnanti che «perdono sangue da tutte le parti»?).

 

Sarebbe il razzismo sfrenato, senza pudore, che ispira a quest’uomo — il quale, secondo la prima moglie, citata da Vanity Fair, era solito tenere una raccolta di discorsi di Hitler sul comodino — le sue uscite contro i Neri (inevitabilmente «pigri»), gli ispanici (generalmente «stupratori») o i musulmani (necessariamente «informati», dunque colpevoli, delle stragi di Orlando e di San Bernardino). Sarebbe l’antisemitismo, appena più misurato, che affiora da quella battuta conviviale (The Washington Post, 20 luglio 2015) sul fatto che gli unici a poter gestire il suo denaro sono gli «uomini con la kippah»; da quel tweet insistente (24 aprile 2013) sulle origini ebraiche del giornalista Jon Stewart; o da quell’invettiva lanciata, nel dicembre 2015, alla Republican Jewish Coalition: «Non mi sosterrete perché non voglio i vostri soldi!».

 

E non parlo neppure della crassa ignoranza politica di chi dimostra di non conoscere, in un dibattito interno al suo partito, il numero di articoli della Costituzione americana o il significato, a pochi giorni dal voto, della parola Brexit...Perché il peggio del peggio, il problema più grave e l’handicap più preoccupante per un uomo che aspira a diventare il capo della prima potenza mondiale, è ancora il repertorio di idee semplici, se non semplicistiche, su cui sembra basarsi la sua visione geopolitica. Così l’idea, lanciata a inizio marzo e probabilmente ispirata alla gestione dei suoi fallimenti privati, di una rinegoziazione del debito pubblico del paese: idea non solo idiota (il governo americano, avendo il monopolio dell’emissione della valuta mondiale, non ha nulla da rinegoziare!), ma che si sarebbe rivelata, se il suo artefice fosse stato al potere, assolutamente devastante.

 

Così la sua proposta, formulata in occasione del discorso d’investitura alla Convention di Cleveland, di rivedere, nel caso in cui fosse eletto, le regole di ingaggio della Nato che prevedono l’intervento automatico a sostegno di uno Stato membro della coalizione sotto attacco: nel mondo secondo Trump, la Russia potrebbe mettere in atto la minaccia, più volte ventilata, di riesaminare la legalità del processo che ha portato all’indipendenza dei Paesi Baltici; potrebbe ritoccare i confini con un vicino o lanciarsi al soccorso di una minoranza russofona «presa in ostaggio» da un altro; potrebbe invadere la Polonia e, naturalmente, l’Ucraina; potrebbe attaccar lite con il Giappone o qualunque altro alleato francese nella regione Asia-Pacifico; la risposta americana non sarebbe più né automatica né sicura.

 

E poi, naturalmente, Putin, di cui il Nostro non perde occasione di lodare le qualità: è stato forse conveniente, da parte di un futuro candidato alla Casa Bianca, aver detto a Larry King che il numero uno della potenza avversaria è un «grande leader» che ha fatto un «gran lavoro» per «ricostruire» la Russia? Era opportuno, nel settembre 2013, parlare di «capolavoro» a proposito dell’intervento di Putin sulla stampa americana con un articolo che ha demolito la politica statunitense in Siria? Ed era proprio necessario, nel settembre 2015, dopo due anni di quasi-guerra fredda, dichiarare a Fox News che il presidente russo merita, in materia di leadership, «una tripla A»? La verità è che i legami personali di Donald Trump con la Russia sono molto stretti e molto antichi. Risalgono all’epoca – inizio anni 2000 – in cui Trump, finito nella blacklist delle banche americane, si rivolse a una serie di investitori russi per finanziare i suoi progetti a Toronto, Soho o Panama.

 

E cominciano a venir fuori inchieste che descrivono tutta una galassia di influenze e interessi for-matasi in quel periodo, che vede gravitare intorno all’ormai candidato, e a suo vantaggio, amministratori di Gazprom, ex lobbisti del dittatore ucraino Ianukovich o figure di spicco della criminalità organizzata. Alcuni, come Franklin Foer su Slate, arrivano a vedere in Trump il «fantoccio di Putin». Altri, come l’ex consigliere di Bill Clinton George Stephanopoulos, s’interrogano su possibili legami organici tra la sua campagna e il regime russo. E il New York Times dello scorso week-end è arrivato persino a domandarsi se possa esserci la mano dei servizi segreti russi dietro alla fuga di notizie che ha portato alla pubblicazione, a due giorni dalla Convention di Filadelfia che avrebbe consacrato la nomination di Hillary Clinton, di 19.252 e-mail scambiate da alti dirigenti del Partito democratico.

 

Sono domande inquietanti. Non è più questione di semplicismo, ma di infedeltà a quel vincolo che lega, in profondità, tutti gli americani. E a quanto pare non è più da escludere che il partito di Eisenhower e di Reagan si sia lasciato ingannare da un losco demagogo il cui stile, la cui vita e le cui convinzioni equivalgono a un tradimento non solo degli ideali, ma anche degli interessi del paese. American vertigo

 

(traduzione di Enrico Del Sero)

 

© Corriere della Sera (30 luglio 2016)

 

 


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