Con gli attacchi terroristici di Parigi e tutto ciò che ne sta derivando, riemergono nel dibattito, politico e non, antiche questioni relative alla guerra e alla violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti, talvolta facendo confusione fra i concetti di pacifismo e nonviolenza, che in realtà hanno poco o nulla in comune contrapponendosi. Riteniamo per questo utile riproporre un contributo del direttore Giuseppe Rippa, apparso in apertura del numero 104 di Quaderni Radicali - dicembre 2009.
Il potere della nonviolenza. La politica per cambiare
“La nonviolenza è vecchia come le montagne”. Questo diceva Gandhi del principio e del metodo che fu la teoria della sua esistenza. Ma la domanda che si pone oggi è: al di là delle mere espressioni o delle icone pubblicitarie, la nonviolenza è, realisticamente, una credibile prassi di azione nei rapporti tra individui e soprattutto tra Stati, tra questi e gruppi violenti e fondamentalisti, tra chi ha intenzioni e volontà di uccidere e chi non ha alcun desiderio, intenzione o volontà di ammazzare, ferire, distruggere?
Vediamo gli scenari che ci sono davanti sul piano mondiale e nazionale: tutto ciò che non si poteva e non si può realizzare nel quadro politico e storico degli stati nazionali e delle attuali istituzioni nazionali resta irraggiungibile per una prospettiva nonviolenta. Lo sapevamo e lo sappiamo. Perché la cultura politica della nonviolenza presuppone Legge e Diritto, perché una cultura della vita che non sia cultura del diritto, che non aspiri a creare o modificare la legge, può produrre forse martiri non attori della storia. E oggi Diritto e Legge per poter esistere, per poter essere riconosciute e rispettate o sono trasnazionali e sovranazionali, o si collocano all’interno dei meccanismi di effettiva interdipendenza economica e politica fra le regioni del mondo o semplicemente non sono.
Ricostruiamo alcuni presupposti del lavoro politico dei radicali italiani sul terreno della nonviolenza. Lo facciamo ricorrendo ad una parte dell’intervento che un radicale storico come Roberto Cicciomessere scrisse nel “Numero unico” per il 35° Congresso del Partito Radicale - Budapest 22-26 aprile 1989: La nonviolenza politica per completare la democrazia.
«Se qualcuno volesse definire il pensiero del Partito Radicale, se volesse cioè isolare il cromosoma rilevabile, l’impronta in ogni sua espressione politica e scoprire la ragione essenziale e costitutiva del fenomeno radicale – nel suo esatto significato scientifico di manifestazione degna di osservazione e di cui si studiano le cause – dovrebbe soffermarsi a ragionare sul significato della scelta nonviolenta. Dovrebbe chiedersi perché un partito di rigorosa osservanza laica e a pieno titolo testimone della cultura occidentale, abbia scelto di rischiare il ridicolo affidando all’immagine un po’ naif di Gandhi la sua rappresentazione esterna, facendone il proprio simbolo. Scoprirebbe così che la posta della scommessa radicale, quella che ha spinto, quasi trent’anni fa, persone di diversa estrazione politica ma con identica fede nel socialismo liberale, ad associarsi nell’impresa radicale, era quella di dare compiutezza alla democrazia politica. Erano convinti che ciò sarebbe stato possibile solo se fossero riusciti a far divenire civiltà del nostro tempo la cultura della nonviolenza politica; se fossero cioè riusciti ad affermare l’urgenza politica di non rassegnarsi ad accettare la violenza, verso la persona e verso il suo ambiente naturale, come tributo storico obbligatorio da pagarsi in nome della civiltà, della rivoluzione o del progresso.
Per vincere questa scommessa dovevano interrompere la continuità storica con quei filoni prevalenti, che postulavano il dovere di prendere le armi contro il nemico della patria o di classe, che associavano indissolubilmente alla affermazione della giustizia la decapitazione dell’ingiusto. Con sofferenza i migliori esponenti delle culture prevalenti vivevano la contraddizione fra i motivi ideali e iniziali della Rivoluzione – quelli di fratellanza, di uguaglianza, di libertà e di tolleranza – e la dura necessità di negarli nella lotta armata, nell’esaltazione della violenza giusta, spesso nel terrorismo. Ma si rassegnavano a pagare questo tributo di sangue e questa amputazione di valori accettando come insuperabile, la contraddizione ideale fra mezzi e fini, poiché l’unica alternativa concepita era un’altra forma di rassegnazione, ancora più violenta: l’accettazione passiva dell’ingiustizia, del totalitarismo, dello sfruttamento.
Radicale eccezione allo scandalo della giustificazione della violenza in nome degli ideali della Ragione, la nonviolenza gandhiana dimostra all’Occidente che è invece possibile concepire lo scontro politico più duro, la stessa liberazione di un popolo dalla più grande potenza coloniale del momento, senza essere costretti a rinunciare ai principi di tolleranza e di rispetto della vita, per i quali ci si batte. Nella nonviolenza mezzi e fini si riconciliano, gli uni diventano adeguati agli altri, i primi prefigurano i secondi. Se il fine, l’ideale è costruire una Società più giusta, a misura d’uomo, il mezzo non può essere la prevaricazione della persona, il suo annullamento fisico. Per questo Gandhi deve lottare non solo contro l’oppressore inglese ma innanzitutto contro l’intolleranza e la violenza che rischia in ogni momento di prevalere negli oppressi; per questo antepone alla conquista dell’indipendenza nazionale il superamento dell’intolleranza religiosa fra indù e mussulmani. (…).
Gandhi non lotta solo per la libertà e l’indipendenza del popolo indiano ma anche perché la grande cultura democratica dell’Inghilterra, nella quale si è formato e che mai rinnegherà, non sia umiliata e mortificata né in Sudafrica né in India. La nonviolenza di Gandhi infatti, anche se si nutre del sentimento religioso della cultura induista, è in molta parte interna alla cultura europea e anglosassone, da Lev Tolstoj a David Thoreau e Charles Dickens. La sua prima aspirazione è quella di suscitare un movimento politico universale capace di proseguire e sviluppare la cultura illuminista, di dare coerenza politica, civile e storica ai motivi fondanti della rivoluzione francese e di quella socialista, di superare gli errori che le hanno portate, al pari delle altre rivoluzioni, a negarsi nell’intolleranza e nella violenza.
Il pensiero radicale è tutto in questa intuizione: la nonviolenza politica può, oggi, costituire la forma più avanzata e integra della tolleranza laica, su cui dovrebbe fondarsi la civiltà di una società e di uno Stato democratici. E ciò può divenire possibile solo se la nonviolenza è tradotta nelle leggi e nei comportamenti delle classi dirigenti non meno che delle opposizioni storiche.
Per un paio di secoli, dopo la rivoluzione borghese, contraddizioni spaventose hanno ferito la civiltà della tolleranza e della democrazia. In nome della dea ragione si è ucciso e massacrato, in nome delle nazioni e delle rivoluzioni si sono fatte guerre e carnai. Si è anche pensato che tolleranza e violenza potessero o dovessero convivere, quando la violenza diventava di Stato o rivoluzionaria.
La nonviolenza invece mette al centro della vita sociale la persona, il dialogo. La nonviolenza presuppone che non esistono demoni, nemici da abbattere, ma solo persone: e che la peggiore fra di esse, se aggredita con la forza della nonviolenza – che è sempre aggressiva – può corrispondere con quella parte di sé che è migliore, invece che con la peggiore: una vittoria può definirsi tale soltanto se tutti in egual misura sono vincitori e nessuno è vinto, sostiene una famosa massima buddista».
Ma a questo punto torna il quesito che è stato posto all’inizio: la nonviolenza è realisticamente credibile nella prospettiva storico-politica del nostro tempo? Il quesito è drammaticamente ineludibile. Quello dei nonviolenti è un percorso senza prospettive in un contesto mondiale dove i nuovi equilibri si vanno definendo su piattaforme molto lontane dall’agire e dalla filosofia della nonviolenza? Si finisce per operare in un ghetto personale, in un ghetto politico, in un ghetto culturale in Italia, in Europa e nel contesto mondiale.
L’agenda internazionale segna elementi tutt’altro che ottimistici nella prospettiva auspicata. Afghanistan, Iraq, Pakistan, area mediorientale: bastano solo questi nomi – per non citare tutte le altre zone in conflitto o a rischio – per avvertire la frattura tra il disegno strategico e i drammatici fatti della realtà che ci circonda. La violenza assoluta, come arma assoluta, come strumento assoluto, non esiste. La violenza, in realtà, come costrizione, come mezzo di imposizione – da sola – non realizza mai le sue finalità. Se facciamo attenzione ai più raffinati strumenti di violenza fisica, agli eserciti, ai momenti di più esasperata realizzazione della violenza, troviamo che essa stessa ha bisogno di una contrattazione della ragione alla quale si contrappone.
La violenza ha bisogno della mistificazione, della disinformazione, della deformazione della verità. Non è un gioco di parole. Quante volte sentiamo affermare che la ragione è del più forte. O ancora – con un linguaggio che è diventato consuetudine – che si “affida alle armi” la ragione degli Stati e delle buone cause. E’ una vera aberrazione. Come si può “affidare alle armi”, a strumenti di morte, una buona causa? La trasposizione mistificante dei fattori in campo è necessaria per far apparire una violenza come una verità o una ragione. Questo non vuol dire che non bisogna difendersi in caso di aggressione.
«È difficile immaginare un regime come quello Hitleriano – diceva Mauro Mellini, anch’egli radicale storico, nel già citato convegno del 1988 – , che era fondato sull’esaltazione della violenza, e la storia di quello che ha rappresentato, in quel pugno ristrettissimo di anni, un regime come quello Hitleriano – dalle divisioni corazzate ai forni crematori espressione di violenza – se non fosse stato, tutto questo, accompagnato dalla mistificazione. Goebbels è l’altra faccia di Himmler e delle divisioni corazzate, e senza Goebbels non si immagina il regime e la vicenda Hitleriana in Europa. Si aggredisce l’Olanda e si dice che l’Olanda stava per aggredire il Terzo Reich, c’è il bisogno di dire questo... no? L’Olanda stava per aggredire il Terzo Reich! E non è un fatto tipico della scoperta di Goebbels dell’arma della propaganda, ma è una costante precisa, perché in ogni momento il violento ha bisogno di questo completamento, di questo presupposto: le macchine di violenza non funzionano senza che siano accompagnate da una forma di imposizione – in qualche misura – di una “finta” verità senza la quale falliscono, e riconoscono a se stesse di fallire. Che cosa sono stati i fascismi tra le due guerre, se non il riconoscimento che alla violenza delle armi bisognava aggiungere la mistificazione, e che i regimi più adatti per esprimere violenza dovevano essere accompagnati da una grande forza propagandistica? Non ci illudiamo: il fascismo come dato vincente negli anni tra le due guerre – e non soltanto tra le due guerre, ma anche dopo – è stato espressione di un Regime che ha raggiunto tanta gente, con i suoi mezzi di propaganda, quanto tutti i regimi democratici precedenti non erano mai riusciti a fare.
Se pensiamo che per una generazione di italiani, in zone di contadini e di operai, il primo giornale che hanno avuto nelle mani non è stato né il giornale socialista né quello cattolico, ma il giornale di trincea; e la prima ideologia che li ha raggiunti è stata quella che in trincea, mentre stavano coi piedi nel fango e ricevevano fucilate e cannonate, li indrottinava... questo ci fa pensare e ci spiega come, dalla macchina propagandistica degli eserciti - le più perfezionate, quella tedesca, o le più operettistiche come quella italiana - sono nati questi regimi. Ma questi regimi sono l’espressione, la constatazione di questa esigenza sul piano organizzativo, ma che non è soltanto sul piano delle grandi organizzazioni, ma che attiene alla violenza in se stessa».
Disinformazione, mistificazione della verità dunque. Gandhi usò il termine “satyagraha” per descrivere le modalità dell’attivismo nonviolento. La parola “satya” significa “verità” e deriva da “sat” che ha lo stesso significato nel senso di “essere”, “realtà” o “esistenza”. La parola “graha” significa aggrapparsi fermamente a qualcosa. Perciò “satyagraha” vuol dire attenersi fermamente alla verità. Il linguaggio può essere erroneo e le persone possono mentire. La menzogna è una sottile forma di violenza, giacché mostra scarso rispetto per gli altri o paura della realtà. Separarci dalla verità significa separarci dalla realtà.
Il sito della onlus Utopie.it, dà una puntuale descrizione dei caratteri strutturali della nonviolenza.
«Il metodo nonviolento ha il coraggio di confrontarsi con la realtà, con ciò che accade, di modo da poter lavorare con tutti gli attori sulla scena per risolvere il conflitto. I nostri sentimenti, le nostre sensazioni, sono in grado di dirci molto su come vanno le cose e comunicandoli saremo maggiormente in grado di maneggiare le diverse situazioni nel modo migliore: questo non significa che rovesceremo sugli altri tutti i nostri problemi personali senza alcun discernimento. La comunicazione migliore, quella a cui tendiamo, è chiara, aperta ed onesta. Anche quando, come gruppo, comunichiamo verso l’esterno, è necessario che le nostre parole siano accurate e chiare».
Questa è una differenza sostanziale rispetto al metodo “militarizzato” che la comunicazione usa di solito, basato sulla segretezza, sulla menzogna, sull’adesione acritica all’ordine dall’alto o al parere del cosiddetto esperto. «Al contrario, l’azione nonviolenta nomina, apre e gestisce i conflitti. Certamente, non è un metodo per i codardi. Prendere parte ad un’azione diretta nonviolenta richiede coraggio, un coraggio che non ha bisogno né desiderio di armi e scudi. Un coraggio che cammina con dignità e senza timore nel conflitto, che sfida l’ingiustizia e lavora con forza per il cambiamento. Un coraggio disposto ad assumere su di sé dolore o situazioni spiacevoli, ma non disposto ad infliggerli ad altri.
Amore e fiducia, non odio e paura, sono ciò che definisce il coraggio. La parola “coraggio” deriva da “cuore”: noi abbiamo cuore sufficiente da confrontarci con i nostri oppositori, credendo fermamente in un processo umano e nonviolento di riconciliazione».
A differenza dei metodi militarizzati che corrono nell’azione nel modo più veloce e spietato possibile, l’azione nonviolenta è lenta in modo deliberato, nel senso che dà ampi e frequenti avvisi agli oppositori su cosa sta accadendo, di modo che essi possano decidere come confrontarsi con noi. Lo scopo finale di ogni azione nonviolenta non è la cancellazione degli oppositori, ma il trovare un modo armonioso, giusto e pacifico di vivere insieme.
Il modo diverso di far politica dei Radicali ha significato, per più di cinquant’anni, impedire in primo luogo la violenza della verità: è stato il nostro strumento di lotta politica. Non basterà certo, ma porta, intanto, a realizzare quella particolare attenzione che il nonviolento deve avere per il problema dell’informazione e anche per un altro aspetto della propria capacità di far politica, perché certo uno dei punti, dei nodi e degli argomenti di polemica relativa alle questioni della nonviolenza, è sempre quello relativo alla mansuetudine del linguaggio, al tono sommesso, che secondo alcuni dovrebbe essere il naturale complemento delle posizioni del nonviolento.
Il nonviolento non deve mai essere rassegnato o sottomesso. La sua natura e il suo carattere possono essere così, ma se l’opzione nonviolenta è maturata in lui, non è mai uno disposto a sottomettersi; in particolare se ha consapevolezza che i suoi obiettivi sono giusti, necessari, irrinviabili. Determinazione, durata, fermezza – che molto spesso sono la faccia necessaria per l’affermazione della verità – sono i caratteri essenziali di un nonviolento.
Silvio Pergameno, in un commento per Agenzia Radicale fissa in modo chiarissimo la “qualità” e l’attualità della nonviolenza come prospettiva politica:
«Adriano Sofri, ai tempi leader del più complesso e sofferto dei gruppi extraparlamentari (Lottacontinua), in relazione ad alcune recenti dichiarazioni di Andrea Casalegno (figlio di Carlo, vittima della stagione del terrorismo degli anni Settanta), è tornato sul tema della rivoluzione, con accenti rievocativi dei dubbi, dei tormenti, delle tensioni che si agitavano nel cuore e nella mente dei più meditativi tra i militanti del movimento. O forse meglio sul tema dell’aspirazione alla rivoluzione, quasi una tentazione, per quanti si sentivano di fronte a un sistema, a una sorta di fortezza del male, da espugnare di slancio con un assalto per aprire la strada alla società degli uguali. Il Partito Comunista Italiano alla rivoluzione aveva rinunciato, nel momento in cui era entrato nella Costituente eletta nel 1946, era stato parte centrale nell’elaborazione del testo della Costituzione e aveva avviato quell’opera di lenta penetrazione nel tessuto delle istituzioni e dello stato sociale, della quale ancora oggi permangono forti eredità.
Il senso dell’operazione si evidenziava nella linea guida della politica operativa adottata dal partito: il famoso dialogo con i cattolici, di ispirazione gramsciana, per dar vita al blocco storico delle forze proletarie, delle quali una grossa componente restava legata al tradizionalismo populista della Chiesa. Risultava inevitabile la conseguenza che quanti restavano convinti della prospettiva rivoluzionaria cercassero altre forme, irrituali, di organizzazione e di lotta politica, con inevitabili riflessi controproducenti. La deriva terroristica doveva determinare la fine di questa illusione, con una conseguenza di grande portata, che a rappresentare una vera opposizione non restavano che i Radicali, non a caso tenuti accuratamente ai margini; i Radicali dei diritti civili e della sperimentazione del partito nuovo, che avevano capito che l’avversario non era un sistema, ma un regime, al quale la contrapposizione si faceva giorno per giorno, dall’interno delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati, dello stesso associazionismo, denunciandone la contraddittorietà con gli stessi principi di cui si ammantavano e senza ammazzare nessuno».
Ecco allora la nonviolenza, le discese pacifiche in piazza, sedersi per terra e farsi portare al commissariato opponendo la resistenza passiva, i digiuni...un’azione volta a lasciare l’avversario in mutande e a fare i conti con se stesso. Poi trent’anni sono passati nel corso dei quali gli avvenimenti si sono accavallati, con il crollo del muro di Berlino, la fine della guerra fredda, l’articolazione del sistema internazionale e l’affacciarsi di nuovi grandi soggetti politici, la globalizzazione, lo spostamento verso il Pacifico del centro del mondo, il declino politico dell’Europa divisa...e insieme il declino della socialdemocrazia classica e nel nostro paese l’implosione della DC e del PSI e dei così detti partiti minori, il tramonto del PCI e la nascita di nuovi partiti: la realtà in cui viviamo oggi.
Ma il problema rimane: i sistemi elettorali concepiti sempre per conservare il potere a chi ce l’ha, il trionfo delle corporazioni (male antico che si perpetua), le leggi sull’editoria che premiano i big della stampa e non favoriscono il ricambio, la spesa pubblica che non sostiene i bisogni che emergono dal basso ma alimenta il sottogoverno e rende la politica vittima della corruzione e il rapporto con gli elettori legato allo scambio... Tare della nostra vita politica, che ci trasciniamo da secoli e dalle quali non riusciamo a venir fuori con i modelli che continuano ad essere prepotentemente proposti.
(Tratto da Quaderni Radicalil 104 - Dicembre 2009)