Coraggioso e lucido nell’analizzare la realtà del suo tempo, Pier Paolo Pasolini fu l’intellettuale veggente. La sua arte tracciò i contorni di un futuro politico e culturale del quale lui stesso fu privato. Messo a tacere da una morte prematura, vigliacca, avvolta nel mistero, cui sola certezza fu quella di aver spento forse la voce più illuminante del nostro Novecento.
Il testo che segue - pubblicato nel numero 103 di Quaderni Radicali -Speciale luglio 2009 - sfoglia l’esistenza artistica di Pasolini, dalla sua passione per l’arte (alimentata dall’incontro con il Maestro Roberto Longhi), all’amore per l’immagine in movimento sfociato nel cinema, speranza ultima di catturare il Vero laddove le parole non arrivano. Verrà approfondita la poco conosciuta passione di Pasolini per la storia dell’arte, pretesto e continua fonte di spunti e citazioni nella sua carriera di cineasta.
Cercare di analizzare la figura di un intellettuale come Pasolini, in un primo momento appare un’impresa quasi irrealizzabile. Un uomo dai mille volti il cui frenetico impegno artistico in più campi del sapere esprime la personale volontà di rimanere libero da ogni tipo di definizione. Una costante nell’arte di Pasolini è stata il cambiamento, inteso come continua ricerca sperimentale e atteggiamento mai volutamente programmatico riguardo al suo uso della contaminazione tra le varie forme d’arte.
Sin da bambino aveva imparato a concepire il trasferimento da una città all’altra, causato dal lavoro paterno, come un qualcosa di naturale. Il non sentirsi mai definitivamente radicato in luogo, gli permise di estendere la sua individuale prospettiva del mondo e sembra quasi giustificare quel poliglottismo culturale che lo contraddistinguerà negli anni.
La forza della parola lo ha sempre affascinato per la potenza evocativa che essa possiede. In quanto tale però, ci dà una visione dell’universo umano che non è mai completamente pura, ossia totalmente aderente alla realtà, bensì quest’ultima, può essere deformata dal poeta/scrittore del momento che, in base al suo stato d’animo, ne sottolinea un aspetto piuttosto che un altro. Il modo migliore per cogliere la realtà è riuscire ad afferrarla in tutte le sue manifestazioni e questo, per Pasolini, lo si può fare in modo particolare attraverso la rappresentazione visiva.
Con il tempo, il simbolismo del linguaggio verbale diverrà una prigione dalla quale fuggire, per cercare quella “fisicità” che in Pasolini è stata sempre una tendenza peculiare e che lo stesso Contini aveva rintracciato nelle opere letterarie di Pier Paolo in tempi non sospetti. L’esperienza del cinema gli permette di rimettersi in contatto con la sacralità che da egli attribuisce al Reale, instaurando con esso un rapporto ancora più autentico. È un’arte irregolare, onirica, barbarica, pregrammaticale, corporea, in cui Pasolini riesce ad esprimere al massimo grado la sua tendenza regressiva verso lo stadio infantile, prima del complesso di Edipo, cioè prima dell’ “obbligo di conoscere”, verso una sorta di paradiso perduto fuori dalla storia.
Pasolini, divenuto regista, darà alle sue opere cinematografiche un’ impronta povera e primitiva, adottando moduli appartenenti all’arte del Trecento e dell’epoca rinascimentale. La citazione artistica viene espressa attraverso la messa in posa, i lunghi primi piani che sottolineano la ieraticità dei volti (di attori presi il più delle volte dalla strada) e la ricostruzione di veri e propri “tableaux vivants” che divengono rappresentativi di un autoesorcismo nei confronti di qualsiasi tentazione estetica.
La crescente delusione nei confronti del mondo che viveva, la crisi dell’impegno marxista e la mancanza di una realizzazione completa attraverso la scrittura, sfociano nel suo cinema unite alla passione per il gesto e per il rito, figlie di una “folgorazione figurativa” che risaliva agli anni universitari e alle lezioni di Roberto Longhi. Proprio durante quest’ ultime, le quali erano impostate sullo scorrere sequenziale di diapositive in bianco e nero illustrata dalla voce di Longhi, Pier Paolo erediterà alcuni elementi caratteristici del suo cinema che verranno in questa sede adeguatamente esposti, chiarificando anche il rapporto e le affinità elettive che univano l’allievo al maestro e puntualizzando in quali termini la citazione artistica entra a fare parte del realismo cinematografico di Pasolini.
1. L’ università, l’incontro con Longhi, l’amore per l’arte
Pasolini entra all’ Università nel 1939, a diciassette anni, iscrivendosi alla facoltà di lettere: “L’ università rappresentò due o tre cose per Pasolini. Rappresentò Longhi e Arcangeli che era l’assistente di Longhi, di cui Pasolini diventò amico”. ( L. Serra). Diviene allievo di Roberto Longhi (lo stesso Francesco Arcangeli lo incoraggia nella via della pittura) e segue il suo memorabile corso sui Fatti di Masolino e di Masaccio (Pasolini lo definisce mitico e lo ricorda dubitativamente tra il 1938 e il 1940, in realtà si tratta dell’anno accademico 1941-1942 ) : “Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo silenzio era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione.”
La notevole influenza della pittura sull’opera di Pasolini è comunque mediata da Longhi. Pasolini pensava di diventare uno storico dell’arte e aveva proposto al maestro una tesi sulla storia della pittura contemporanea (il manoscritto con i primi capitoli andò perduto nei giorni dell’armistizio dell’ 8 settembre del 1943). Pasolini aveva proposto a Longhi tre possibili argomenti: il primo sulla Gioconda ignuda di Leonardo (secondo Galluzzi il tema poco pasoliniano, ma individuato per ragioni pratiche, visto che uno degli esemplari riferibile al supposto prototipo perduto era di Paolo Weiss, amico dello zio materno del poeta, l’antiquario Gino Colussi); il secondo su una Deposizione del pittore friulano Pomponio Amalteo, commissionata da antenati della sua famiglia (Galluzzi sottolinea “l’analogia tra i Colus del 1499 minacciati dai Turchi e i Colussi del 1943 minacciati dai nazisti”); l’ultimo, il preferito sia per l’allievo che per il maestro, Sulla pittura italiana, il tema che lo appassiona di più e che molto probabilmente riguardava proprio i capitoli smarriti durante l’armistizio.
Il grande carisma di Longhi non trascina Pasolini solo verso l’arte figurativa, ma anche, in modo più inaspettato, verso il cinema. Lo storico dell’arte amava il cinema e si cimentò insieme all’amico regista Umberto Barbaro in alcuni documentari d’arte (1947-1948).
Il Carpaccio, ritrovato da Paola Scremin, è strutturato come una lezione tipica di Longhi basata sul susseguirsi di fotografie in bianco e nero integrate dalla parola che “aderisce come un guanto all’immagine”, al contrario di quel genere di documentario in cui la musica ha un ruolo privilegiato. La parola di Longhi è calzante, completa l’immagine; la lettura cinematografica dell’opera d’arte consiste nell’uso della macchina da presa per estrarre particolari; i “bellissimi particolari ignoti” che Longhi era famoso per evidenziare, girati su foto fatte eseguire dal critico per l’occasione. Il fotogramma fisso è l’unità su cui si basa tutta la costruzione filmica. Il piccolo film è prototipo di una lezione.
Pasolini ricorda quelle relative al corso su Masolino e Masaccio come una proiezione di diapositive attraverso inquadrature contrapposte. E usa a questo proposito la parola cinema. La struttura di queste lezioni costituisce paradossalmente una lontana matrice dei film di Pasolini, soprattutto dei primi. Anche l’uso del bianco e nero dei primi film si spiega così: Longhi usava infatti, come tutti gli storici dell’arte, diapositive in bianco e nero, in luminosa sequenza, considerate più adatte a rendere i rapporti tonali e le proporzioni volumetriche.
A Bologna Longhi frequenta le proiezioni del Cinema Imperiale organizzate da Renzo Renzi dove anche Pasolini va “con grande orgasmo” e nella platea riconosce il suo maestro: “(…) primo e forse solo grand’ uomo che egli (Pasolini) abbia incontrato e a cui rimase con reciprocità, fedele (…)“. Così riferirà Gianfranco Contini che sarà, in ordine di tempo, il secondo “grand’ uomo” (e con altrettanta reciproca fedeltà) della vita poetica di Pasolini.
Sotto il magistero di Longhi anche la concezione che Pier Paolo aveva del fascismo si definisce meglio e, con naturale evoluzione, avviene la rottura degli ultimi ingenui legami che con esso intratteneva. Senza rinunciare a quelle istituzioni in cui la cultura moderna ha una circolazione minima, come i Littoriali della cultura, ai quali partecipa in occasione della prima selezione di critica stilistica classificandosi primo.
2. Manierismo pasoliniano
Il tentativo di una comprensione imminente e totale dell’universo pasoliniano risulta vano. Pasolini appare una figura intrisa di senso, una sorta di “contenuto sedimentato” che sembra non dare la soluzione, piuttosto innesta un meccanismo di ricerca che non si ferma mai al piano del superficiale, ma scava nel fondo spinto dal desiderio di una risposta definitiva.
I film e i romanzi di Pasolini hanno raggiunto, si direbbe, una valenza mondiale. E mentre gli esordi come pittore di questo multiforme artista hanno destato solo una certa curiosità, i suoi scritti teoretici hanno suscitato le più diverse e talvolta scandalizzate reazioni. Ma soltanto al loro apparire; perché in seguito sono rimasti relegati nella zona oscura della storia. Multiformi sono le sue tecniche espressive. Pasolini è un autore che scrive poesie, romanzi, tragedie, sceneggiature e saggi di varia natura; è un autore che dipinge e disegna; è un autore infine che è capace di girare una ricca serie di film.
Il punto d’intersezione fra queste diverse attività creative è la realtà. E tutti gli svariati mezzi di cui egli si serve in questi movimenti di approccio alla realtà delle cose del mondo, appunto, sono per lui dei codici visivi e linguistici di cui ha piena coscienza. Così come è consapevole di che cosa significhi usufruire di mezzi e codici diversi in un unico e costante riferimento al mondo reale.
Per Pasolini non esistono divisioni del sapere ma campi preferenziali entro cui intervenire. Lo sconfinamento continuo è una necessità operativa e non una trasgressione, il bisogno di nuovi modi e strumenti espressivi che lo portano dalla letteratura verso il cinema, la poesia, la pubblicità e non ultime le arti figurative.
Eppure esiste un filo continuo che unisce e tiene insieme tutte le sue esperienze: un desiderio e uno stile. Il bisogno di una continua sperimentazione nasceva in lui da istanze non soltanto culturali ma anche più direttamente esistenziali che lo spingono verso prove dove non esistono preconcetti o tecniche protettive, bensì sempre il nervo scoperto di una sensibilità arrovellata. L’arrovellamento, la cura particolare di esibire la propria diversità, il narcisismo, il gusto estenuato della polemica e di darsi come bersaglio emblematico, sono i tratti che hanno caratterizzato storicamente in particolare il manierismo. In fondo Pasolini, da vero manierista, ha però nostalgia dell’artista totale di stampo rinascimentale, del genio che attraversa tutti i campi del sapere e dell’immaginario, lasciando dovunque le tracce della propria presenza.
Pasolini ha disseminato di tracce espressive la sua esistenza d’artista, riportando sempre a se stesso e su se stesso le contraddizioni della realtà italiana, nella convinzione che soltanto la dignità esaltante dell’arte potesse riscattare la mediocrità della vita. Ha messo in scena anche le sue di contraddizioni fino all’esibizione. Egli ha cercato di rappresentare il corto circuito tra arte e vita tra se stesso e gli altri uomini. Allora l’arte diventa lo specchio d’ingrandimento entro cui è possibile proiettare non soltanto le mancanze del presente ma anche le nostalgie di un passato perduto.
Dunque lo sconfinamento di Pasolini oltre gli ambiti della letteratura e del cinema non è casuale o pateticamente dilettantesco, ma risponde a quelle esigenze di sperimentazione accompagnata da una costante contaminazione. D’altronde la contaminazione è un altro carattere tipico del manierismo, l’uscita della verosimiglianza del realismo. Nel manierismo c’è sempre una nostalgia di realtà, ma perseguita attraverso modelli espressivi e fuori dalla norma. Anche le prove di Pasolini pittore o autore di disegni si iscrivono all’interno di quest’area culturale. Le opere che vanno dal 1941 al 1971 rappresentano un campionario di immagini eloquenti, che definiscono e aiutano a capire ancora meglio le sue autentiche matrici culturali che trovano anche nel cinema, esasperandosi, le prove più riuscite e più poetiche.
Pasolini più volte denuncia l’omologazione prodotta dalla tecnologia che non permette più di distinguere tra le persone e le idee che professano. L’amore per la differenza ha spinto Pasolini verso l’adozione di uno stile manierista, anche quando adotta le pose del Mantegna. Il cinema per lui è il mezzo visivo che gli permette, attraverso il movimento, di realizzare un personale universo figurativo, fatto di pose staccate che ci restituiscono il suo desiderio di contemplazione. Mediante tali procedimenti egli ottiene una sequenza di quadri staccati, di immagini splendidamente isolate tra loro che ci danno anche un’idea più precisa del suo cinema legato alle arti figurative più di quanto non sembri a prima vista.
Pasolini ha nostalgia di una cultura integrale in cui concorra la totalità dell’uomo. La sua insistenza per le figure umane è il portato di questa nostalgia che lo ha spinto verso esiti espressivi, tutti tesi a ridefinire un mondo spoglio di umanità e di contatto sociale. In definitiva l’opera figurativa di questo artista si inscrive fedelmente nella sua poetica legata alla storia della cultura italiana. Il manierismo di Pasolini nasce proprio dalle radici di questa cultura, dal bisogno di darsi un’ identità attraverso l’arte, dal desiderio di una definizione antropologica in cui conciliare la difficoltà dell’esistere con la grazia dell’apparire.
3. Autoritratti e ritratti d’ intellettuale
“Potrei anche tornare alla stupenda fase della pittura… Sento già i miei cinque o sei colori amati profumare acuti tra la ragia e la colla dei telai appena pronti...”. In queste parole Pasolini dichiara il suo legame permanente con un bisogno, che sin da bambino, lo portava ad esprimersi laddove la parola non bastava, con il disegno e la pittura. Il senso del suo io poteva essere celato dietro le pause di un verso, tra parole da lui amate oppure colto con gli occhi nelle sue opere figurative, le quali paiono esser generate dai suoi stessi versi. La medesima ricerca che egli effettuava sul lessico poetico e non, investiva anche la tavolozza da lui usata. Rimanevano quei “cinque o sei colori amati” che in rapidi gesti mai pienamente definitivi, si confermavano rivelatori di una personalità per la quale anche un piccolo segno sulla tela, rappresentava una sorta di prolungamento dell’ anima.
La capacità pasoliniana di lavorare attraverso la ripresa di moduli linguistici appartenenti alla storia dell’arte, non è pedissequa e sottomessa, ma contiene i germi di una modificazione che si fa strada nel procedere degli anni e trova le sue espressioni migliori nei suoi autoritratti con il fiore in bocca (fig. 1 e 2).
(figura 1)
In queste due opere del 1946 e del 1947 è possibile rintracciare un atteggiamento che accompagnerà Pasolini lungo tutta la sua vicenda artistica, cinema compreso. Se la citazione di partenza è l’autoritratto con il fiore in bocca di Van Gogh, l’impianto dei due quadri è totalmente differente. Intanto vediamo l’artista mettere come sfondo dell’opera del 1947 un altro suo quadro: la rappresentazione nella rappresentazione, il quadro nel quadro. Una posizione da cui è possibile rilevare come egli non intenda la pittura come un intrattenimento naturalistico del dopolavoro, che viene dopo aver realizzato prove in altri campi più impegnativi. Non bisogna farsi ingannare dalla granulosità dell’autoritratto, dalla pennellata spessa e disinvolta che contrasta invece con la citazione alle spalle di un altro proprio dipinto, realizzato con altra tecnica e dalla presenza graziosa del fiore in bocca.
Un gioco di geometrie divide il campo visivo del quadro, creando una partizione sapiente del dipinto, mediante righe verdi (lo stesso verde marcio che ricopre il volto di Pasolini, che ricorda un colore particolare di una grande pittore manierista amato da Pier Paolo, Pontormo). Le spalle sono dipinte con colori diversi, un rosso e un blu che scandiscono la figura rendendola elemento di una composizione che non tende certamente alla verità naturalistica quanto piuttosto alla messa in posa e rappresentazione di uno stato interiore.
(figura 2)
La messa in posa è una costante di tutta l’opera di Pasolini, specialmente cinematografica, ma anche nell’ambito della pittura egli adopera questa sorta di rallentamento e dilatazione di uno stato d’animo. La messa in posa è tipica dell’arte manierista, non a caso nel Cinquecento è molto abbondante la produzione di ritratti, tutti virati nel campo della rappresentazione delle virtù sociali. Il volto viene considerato lo specchio dell’animo, di uno stato sempre interiore. Pasolini adotta tale mentalità, naturalmente correggendone l’estrema eleganza e ribaltandola in un segno aspro e materico. Ma l’ottica resta la stessa, così l’idea che l’arte è sempre metalinguaggio, il prodotto di una lunga storia dell’ arte.
L’altro autoritratto, detto della “vecchia sciarpa”, forse anteriore di un anno, è ancora più all’interno di quel clima evocante tipico della cultura decadente.
Un quadro quasi notturno, risolto con un segno che definisce e incornicia elegantemente la silhouette dell’ artista e lo pone in una posizione del collo quasi modiglianesca. Una grazia cromatica alleggerisce lo spessore del corpo e anche il fiore in bocca si spiega in una posizione innaturale e aggraziata. Lo sfondo assolutamente bidimensionale, tende a tracciarsi come uno scenario cieco e riflettente che spinge ancor più fuori la figura dipinta.
Pasolini ci ha lasciato anche altri autoritratti, schizzi veloci tracciati con la matita che riportano sempre una posizione interna, uno stato di riflessione che non accenna a diminuire, come uno stato febbrile che lo costringe a restituire di sé sempre una condizione di malattia. La malattia è quella di una sensibilità che ama avvertire la propria differenza rispetto all’indifferenza del mondo (fig. 3).
(Figura 3)
Il ritratto è un aspetto privilegiato da Pasolini anche nella sua produzione letteraria. In alcuni romanzi egli adotta la descrizione del volto, anche per sottolineare l’appartenenza ad una determinata classe sociale. È il caso di un romanzo emblematico in questo senso: Teorema, la cui versione cinematografica portata a termine nel 1968, precedette il romanzo che venne compiuto durante la lavorazione del film e fu concluso un anno dopo. In quest’ opera il volto viene visto come elemento fondamentale, che nella descrizione di singoli personaggi, arriva a divenire una sorta di contenitore di tutti quegli aspetti che contraddistinguono l’individuo. Basta soffermarsi sul viso per scoprirne i timori, le debolezze, la nobiltà o l’estrazione contadina. La descrizione di questa parte del corpo diviene un espediente per far calare il lettore nella vicenda, trascurando volutamente, ogni riferimento spazio - temporale considerato pleonastico ai fini della comprensione. Non è casuale che Pasolini abbia prodotto quasi tutti ritratti di sé o di altre persone, sequenze di gruppo e quasi nessun paesaggio. Privilegia sempre il volto, quella parte del corpo dove avvengono le trasformazioni dettate dall’emozioni, il luogo dove è possibile registrare ogni stato d’animo. Perciò Pasolini ha tracciato moltissimi disegni che colgono espressioni di sé e degli altri.
Tutte queste opere hanno in comune la messa in posa, una sospensione esemplare che non coglie i soggetti in atteggiamento effimero o di passaggio, bensì tende a darne l’espressione caratteriale. Soltanto emerge una differenza tra gli autoritratti e ritratti fatti ad altri. Quando Pasolini dipinge o disegna le proprie sembianze tende sempre ad una leggera deformazione che ottiene o attraverso la materia pittorica oppure mediante l’alterazione del segno (fig. di copertina). I ritratti degli amici sono invece sempre dolci e gentili, risolti mediante l’adozione di stereotipi figurativi che qualche volta sfiorano anche l’eleganza (fig. 5). Un’ eleganza da figurino tocca alcuni disegni di giovani uomini e donne, forse perché in questo caso l’artista tende a voler rappresentare la grazia dell’età adolescenziale.
Negli altri, comunque, egli appare quasi sempre propenso a vedere realizzate tutte le idealizzazioni fatte intorno al suo io, che in realtà rimane tormentato. Sogna forse che il resto del mondo non venga preso dal suo male, ne rimanga incolume grazie a lui, che diviene in un certo qual senso portatore e vittima di un privilegio atroce, lo stesso che lo rende artista. Pasolini ha dipinto pochi paesaggi o nature morte. Questo si comprende molto bene se consideriamo che egli cercava sempre di recuperare, anche quando adoperava un linguaggio “anti-grazioso”, un umanesimo che in lui viene tradotto nell’ amore per tutto ciò che è individuale, ma che è stato travolto e cancellato dall’avvento massiccio della civiltà industriale (fig. 6).
4. Il Maestro: Roberto Longhi
“Ah Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le palme di piedi in primo piano per parlare d’ influenza mantegnesca? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori operanti prima del Mantengna? O che se mai, si potrebbe parlare di un’ assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio? (fig. 7 e 8).
Con queste parole a Roberto Longhi a cui era debitore per la sua “folgorazione figurativa” , al suo professore di Storia dell’Arte degli anni 1940-43, egli aveva appena dedicato Mamma Roma. La violenta reazione che si evince dalle parole del regista sopra citate, è dovuta al desiderio di valorizzare la matrice linguistica sulla citazione iconografica, è in un certo senso la reazione di un “purovisibilista” (o di un longhiano più di Longhi) a una critica “iconologica” alla sequenza di morte presente nel film del 1962.
(figura 7)
Pasolini vuole riprendere Masaccio dal punto di vista formale, stilistico, poiché sa che quello è il piano più profondo attraverso cui parla la collettività e si esprimono i valori di una società; in altri termini tende a riprodurre quello che Longhi definisce “costrutto” masaccesco, in modo tale la sua adesione a quel mondo è sostanziale. Ora chiama in aiuto il suo maestro come massima autorità interpretativa.
L’atteggiamento di Pasolini corrisponde in pieno alla concezione di Longhi, secondo cui sono infruttuose le citazioni se non penetrano nell’essenza dell’originale. Perciò Longhi critica alcuni presunti successori di Masaccio: “Citazioni, dunque, sempre citazioni e non costrutti masacceschi, ancora nel quarto decennio del secolo; e sempre retrocessioni favolose, irrealistiche, astratte di quei fatti nuovi, così concreti”. Appare dunque evidente l’identità di vedute tra il maestro e l’allievo.
Ma il motivo per il quale Longhi abbia affascinato tanto il giovane Paolini (che lo definirà “il mio primo Grande uomo”), lo si può intuire dal suo modo di concepire e studiare l’opera d’arte. La specialità di Longhi è la storia della pittura italiana. La fenomenologia dei “tre” Longhi, che in grossolana definizione sarebbero il giovanile espressionista vociano, l’estetizzante manierista della maturità e il “classico” degli ultimi decenni, sembra sminuire la complessa unicità di un elaborato percorso intellettuale. Gianfranco Contini, nella sua introduzione all’opera di Longhi Da Cimabue a Morandi risalente al 1973, delinea la figura del grande critico d’arte e lo definisce dotato di un “reticolato di memoria” senza pari. Estrarre da Longhi una Storia della pittura italiana non significa, comunque, la stessa cosa che estrarre ad esempio da Croce, una storia della letteratura italiana. Questa è infatti per Croce, nel migliore di casi, una semplice gabbia empirica in cui fare scorrere delle monografie caratterizzanti, monadi che non comunicano tra di loro. Ma Longhi, se non si vieta delle contemplazioni, e se anzi si sforza di far centro con “equivalenze indirette”, si dedica nella maggior parte del suo tracciato a questioni di continuità culturale.
Non poche difficoltà egli si trovò ad affrontare dal punto di vista pragmatico, per la realizzazione del suo progetto culturale: a molto meno di un secolo dai romantici, egli è sprovvisto in quanto scrittore, s’intende, di predecessori. Quegli eminenti filologici e attrezzati conoscitori che furono i suoi maestri Pietro Toesca e Adolfo Venturi (soggiacente, quest’ ultimo, a un descrittivismo piuttosto sommario), non potevano certo offrirgli esempi di stile; il loro modo di scrivere era in fondo una sola cosa con il loro assunti magnanimamente enciclopedici, mentre gli assunti di Longhi furono sempre monografici. Su questo punto però occorre fare le dovute precisazioni.
La differenza sostanziale tra Longhi e ad esempio Venturi, è legata al diverso modo di porsi nei confronti della ricerca storico artistica. Adolfo Venturi lavora sull’aspetto referenziale e scientifico della scrittura operando sul piano della ricerca filologica, sicchè il suo testo è un’oggettiva condizione storica dell’opera. Roberto Longhi voleva, invece, trasporre sul piano scrittorio il sistema di valori della pittura. La pittura non esprime contenuti se non in rapporto all’estetica e ciò che ne deriva è un linguaggio estremamente estetizzato. Un precedente era semmai nel Berenson, un conoscitore sovrano che, essendo anglofono, trovava immediatamente nel proprio ambito linguistico la tradizione di raffinati dilettanti quali Ruskin e il Pater (sebbene appare alquanto imprudente, far passare Berenson per un grande scrittore e questo viene provato dalla traduzione che ne tentò il giovane Longhi). Longhi si pone senza alcuna superbia nel suo tempo attraverso una solitudine che lo rendeva diverso dagli intellettuali a lui contemporanei. Caratteristica del suo fare critico, fu il perenne tentativo di far acquisire alla critica in accezione moderna gli enunciati antichi sopra la pittura, in primo luogo delle acuminate, e si direbbe tendenziose interpretazioni semantiche del Vasari. L’Alberti, il Boschini e tutti quanti, ma alto e venerato sopra gli altri il Lanzi, figurano a ogni momento nella sua pagina.
Persuaso che la critica è esistita in ogni tempo, a condizione che non la si identifichi con le istituzioni moderne, ma la si riavvisi dove realmente risiede. Per il suo estremo rigore nella ricerca dei caratteri peculiari dell’artista e della sua esatta inserzione nella storia, ricorda molto il metodo di ricerca intrapreso dal Cavalcaselle e dal Morelli. Le sue pagine critiche, sorrette da una non comune preparazione culturale e illuminate da una geniale intuizione, devono gran parte della propria efficacia a una prosa personalissima e ricca di suggestioni: l’opera d’arte viene accolta non tanto nel suo valore assoluto, quanto sottoposta a una infinità d’indagini che sotto molteplici angoli visuali la sezionano, la ricompongono e ne svelano attraverso la complessità dei rapporti particolari, tutti gli elementi stilistici e culturali. Quasi rivaleggiando con l’opera dell’artista, la prosa dello scrittore ricrea l’esperienza che le ha dato vita, restituendola ad una comprensione globale. Un altro elemento della ricerca critica longhiana è l’animazione antropomorfica impressa alla realtà studiata (per cui si è potuto discorrere di espressionismo) e la convocazione di tutte le arti tecniche possibili perché offrano le loro riserve di metafore al suo poliglottismo, che conduce comunque ad un traguardo unitario. La tradizione orale ha tramandato, la straordinaria abilità mimetica e addirittura istrionesca di Longhi, mentre rimane a pochi conosciuto, il suo rimpianto di non esser diventato attore. Tracciate queste poche linee che esplicano la sua figura d’ intellettuale, non sarà difficile rintracciarvi punti in comune con il suo celebre allievo.
Si può facilmente intuire cosa Longhi scatenò nell’animo di un Pasolini appena ventenne, pieno d’iniziativa e brama di conoscere, allo stesso tempo smanioso di trovare una strada da seguire per poter realizzare pienamente tutte le sue inclinazioni artistiche. Agli occhi di Pier Paolo, Roberto Longhi, dovette apparire come la possibilità da lui sempre sperata di concepire il sapere libero da demarcazioni e rigide strutture. Longhi si muoveva come un attore, parlava come un storico d’arte dalla cultura illimitata, studiava le immagini in maniera sequenziale, analizzando il modo migliore per farne emergere le caratteristiche pregnanti e assumendo in questo, il ruolo che può avere un regista alle prese col messaggio che vuole trasmettere in un determinato modo. Ora tutto era chiaro. Per Pasolini le lezioni di Longhi rappresentarono un momento fondamentale della sua formazione, a cui lui si chiamerà sempre debitore. In un periodo in cui la cultura italiana era succube dei modelli imposti dalla società fascista, l’insegnamento di Longhi appariva come una promessa di cambiamento, soprattutto per quei ragazzi, che come lui erano cresciuti e si erano formati all’interno di associazioni culturali fasciste, Gil e Guf. Pier Paolo nato nel 1922, non aveva prima di allora, come si può facilmente intuire, mai neanche sfiorato l’esperienza di un sapere incontaminato, puro, libero e al di fuori dei parametri dettati dall’ideologia mussoliniana. Caratteristiche queste, che Pasolini erediterà trasmettendole con un linguaggio unico e personale, che se nelle linee ispirative si era rifatto a quello longhiano, nelle realizzazione, diverrà qualcosa di riconducibile solo a se stesso, senza termini di paragone con il passato.
Come il Maestro, egli camminerà solo nella storia della cultura italiana, muovendo passi su strade nuove, quelle che solo un genio può tracciare per primo.
(tratto da Quaderni Radicali 103 - Speciale Luglio 2009)