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16/11/24 ore

Che cosa può fare il Pd per non diventare una costola di Grillo



Il numero 109 di “Quaderni Radicali”, la rivista fondata e diretta da Giuseppe Rippa – forse, la più antica rivista italiana di politica – ha come titolo di copertina “Un domani al Partito Democratico”. Intervengono, oltre allo stesso Rippa con l'editoriale, Gianfranco Spadaccia, Giuliano Ferrara e Biagio De Giovanni in conversazione con il direttore, Emanuele Macaluso intervistato da Danilo Di Matteo, Luigi O. Rintallo, Gianni Pittella, Giuseppe Caldarola, Sergio Scalpelli, Fabio Viglione, Ennio Calabria, Roberto Granese, Ermes Antonucci. Si va dalle analisi storico-politiche alle inchieste più o meno settoriali, ma nel complesso la rivista offre utili strumenti di interpretazione di un segmento essenziale della politica (e della storia) italiana; soprattutto perché, con diverse sfumature, vi sono messi a fuoco i due problemi di fondo nei confronti dei quali il partito posto sotto il microscopio (o il microtomo) sembra essere particolarmente inadeguato: la giustizia e la cosiddetta “questione liberale”.

 

Gianni Pittella osserva quanto fosse “fondamentale” “l'intuizione” di “mettere assieme  culture diverse per dare forma ad un soggetto politico che raccogliesse le grandi tradizioni del riformismo italiano”: “la cultura liberal-socialista, quella cattolica, quella liberal-democratica, quella libertaria, quella ambientalista erano gli ingredienti giusti per una grande prospettiva democratica”. Se questo giudizio è corretto (ma, almeno nella formulazione che ne dà il saggista, lascia perplessi) bisogna dire che né l'attuale PD, né  il PCI o la DC, i due partiti i cui componenti (o frange, o residui) vi sono in parte confluiti, hanno molto a che fare con quegli “ingredienti”, salvo forse quel cattolicesimo di cui la DC si diceva portatrice, interprete e garante.

 

Nel suo ampio excursus storico, Gianfranco Spadaccia ricorda come, una ventina di anni orsono, Giorgio Napolitano, parafrasando la famosa osservazione di Benedetto Croce sul cristianesimo, pronunciò un “non possiamo non dirci liberali”  che, osserva Spadaccia, era un “bel modo per eludere la questione” tenendosi stretti piuttosto alla strategia di Palmiro Togliatti. Il quale manifestò certamente “attenzione costante” per le  “teorie liberali” e in particolare per lo “storicismo”, ma con l'obiettivo specifico di “attrarre nelle file del 'partito nuovo' le nuove generazioni della borghesia intellettuale e delle professioni”.

 

Opportunismo (e in quella strategia ve n'era parecchio) produce opportunismo, le scelte strumentali difficilmente producono grandi strategie. Si aggiunga poi che, mentre Togliatti serbava qualcosa del giolittismo laico nel quale era nato e cresciuto, Enrico Berlinguer puntò sul “dialogo con i cattolici” in termini strategici e persino fideistici: un abbraccio che escludeva ogni possibilità di rapporto con liberali, socialisti e, figuriamoci, libertari.

 

Per Ferrara il “bambino” nato dall'accoppiamento di “post-comunisti e democristiani di sinistra” non si è conquistato, da adulto, una “identità”: è rimasto un “epigono” delle “tradizioni culturali europee di matrice socialista e cristiano democratica” senza avere il coraggio di evolvere nel partito-arcipelago capace di raccogliere, seguendo “il modello democratico americano”, “il gioco delle contraddizioni, sessuali, religiose - cattolici, buddisti, valdesi ecc.” Così al PD fanno difetto “i più elementari caratteri di una democrazia liberale”...

 

Impossibile dare conto, nelle loro articolazioni, di tutti gli interventi: che hanno però in comune una spiccata nostalgia per quel partito di cui pur elencano gli enormi errori. Con diversi accenti, più o meno sospirano perché il PD di oggi non è quello che essi vorrebbero che fosse. Sono sempre gli orfani di una certa idea della “sinistra” che non c'è (e forse non c'è mai stata). Si può osservare - senza troppa ironia - che una analoga e opposta nostalgia potrebbe essere invocata anche a proposito della “destra”, sicuramente con pari diritto e pari dignità anche se nessuno tra i saggisti di “Quaderni radicali” - eccetto, probabilmente, il solo Ferrara – vorrebbe ammetterlo?

 

Giuseppe Caldarola  annota che il PD “si ripropone come il contenitore in cui possono confluire, anche turandosi il naso, tutti coloro che credono che il centro-sinistra sia la propria casa definitiva”.  Troppo poco per dare al paese quella scossa innovatrice che sembra sempre più urgente. E non è neanche un caso che in queste pagine non appaia mai (e se ci è sfuggito sarà l'eccezione che conferma la regola) il termine “referendum”.

 

Anche tra i più disincantati critici della crisi italiana e dei suoi partiti non è ancora percepito il fatto che quella seconda scheda di voto che i padri costituenti posero nelle mani dei cittadini italiani – la scheda referendaria – non era un artificio, un elemento secondario o marginale della costruzione istituzionale, ma un suo punto di riferimento essenziale e portante: era lo strumento calibrato per tenere sotto controllo il "moderno principe", il grande partito di massa che portava in sé i germi della sua degenerazione, quella che stanno scontando in (quasi) pari grado la Destra e la Sinistra. Una geniale intuizione: troppo geniale per essere raccolta e praticata.

 

Angiolo Bandinelli (da Il Foglio)

 

 

 


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