di Amelia Realino
Fallimento e perfezione. Ovvero il ritratto della vita. Parole grandi e fatali. Parole che appartengono al vocabolario quotidiano della crescita dell’individuo per decifrare l’itinerario esistenziale in cui siamo chiamati ad impegnarci. Tracce di un cammino che si vorrebbe perfetto e compiuto, e che può invece fallire e mancare al compimento, come ricorda la celebre e preziosa frase di Samuel Beckett: “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”.
Ne hanno parlato all’Argentina di Roma, il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, l’onorevole Anna Finocchiaro, la scrittrice Nadia Fusini, il filosofo Massimo Cacciari e il giornalista Federico Rampini, riuniti attorno al titolo Il fallimento della perfezione, per ragionare sul fallimento e sul desiderio di rinascita. Tematiche declinate secondo più fronti dell’esistere, avendo tra gli interlocutori alcuni dei testi di autori della tradizione mistica, come Angelo Silesio (1624-1677) e Dag Hammarskjöld (1905 -1961).
Così si dipanano storie, universi possibili, pensieri e percorsi diversi, in un viaggio a più voci nella lettura del termine fallimento tra mistica, economia e filosofia.
“Ho cercato Dio finché mi accorsi che avevo dimenticato quello che cercavo. Allora, spegnendo la mia lampada, gettai le chiavi, e mi misi a piangere... e subito, la Sua Luce fu in me”. Sono le parole di un grande mistico tedesco del 600, Angelo Silesio, che restituiscono l’itinerario evocato dal temine mistica: “la sua luce fu in me”.
La luce fu nel silenzio. Nell’assenza di parola. Nel momento mistico. Un percorso a tappe di avvicinamento alla comprensione dell’esperienza mistica, come capacità di mettere in discussione la nostra identità per abbandonarci ad una conoscenza che sia la meno viziata dal pregiudizio. Qualità imprescindibile in un mondo sempre più vasto e cangiante dentro il quale ci muoviamo, inciampando nelle molte trasformazioni che spesso ci appaiono incompatibili con la realtà conosciuta.
Questa necessità di prescindere dal nostro punto di vista per capire e affrontare la complessità, è un’urgenza e una pratica già contenuta nell’etimologia dello stesso vocabolo che esige una tensione interiore verso il silenzio, l’ascolto, la disponibilità a valutare le cose con quel sereno distacco che, lungi dall’originare indifferenza, rende possibile un originale coinvolgimento.
Mistica, dal greco myo, letteralmente chiudere. Tacere. Stare in silenzio. «Ma si tratta del silenzio in cui sono insite tutte le parole. Il non dire. Ovvero quella realtà carica di parole. Ed è per questo motivo che gli Ebrei non pronunciano mai il nome di Dio ‒ commenta il Cardinale Ravasi ‒ Quando Elia sale al Monte Sinai per riprendere la sua vocazione aspetta di incontrare Dio nel tuono, nel terremoto, nella folgore, secondo i segni dell’apparato tradizionale teofanico. Invece, Dio si manifesta attraverso una voce di silenzio sottile».
Così la mistica conosce il silenzio: il silenzio di Dio che, nel tacere, vuol dire anche il male, la disperazione, la desolazione, la crisi del nostro tempo...
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