Costa cara la campagna pubblicitaria “Open to meraviglia” della ministra al turismo Daniela Santanchè, sia per le proteste scatenate sui media perché non è piaciuta sia per l'esoso compenso di circa 9 milioni di euro percepito dall’agenzia.
I manifesti effettivamente sono un po' ridicoli perché ostentano l'Italia degli stereotipi con una sottile vena concettuale, schiaffandoteli in bella vista, un po' come fa Vezzoli con l'arte classica, una simbologia gratuita, offerta con la pretesa che dialoghi e che ti dica qualcosa.
Non di certo ti rechi in Italia perché hai visto questi manifesti, nel complesso un po' algidi, che non coinvolgono e nemmeno interessano.
Ma non è dei manifesti in senso stretto che voglio parlare (i media sono così pieni di articoli in merito che ci sarebbe solo da citare): voglio invece far notare che anche le riviste d'arte si sono fatte carico di questa contro - campagna a “Open to Meraviglia”.
A leggere tali critiche in riviste dove tutto quello che trovi tra le pagine solitamente sono elogi, fa davvero piacere; soddisfa vedere scritto che qualcosa non piace, disgusta, è da condannare. In questa occasione si possono leggere parole inusuali, tipo che qualcosa è “brutto”, una categoria che nell'arte contemporanea è inesistente, pur essendo il brutto/bello il più essenziale tra tutti i connotati estetici.
L'Avanguardia ha posto come prioritaria tra i suoi argomenti la valutazione di criteri estetici che non dovevano essere quelli precedentemente usati, anzi si riteneva Avanguardia proprio perché le valutazioni erano diametralmente opposte alla tradizione, notoriamente proiettata per il bello. Così dagli inizi del Novecento, quando è nata l'arte contemporanea, ci siamo ritrovati nella codificazione del “brutto”, appositamente realizzato, ma mai detto né scritto.
Ad esempio, nessuno ha avuto da ridire su “America” il celebre water d'oro dell'artista Maurizio Cattelan, tra l'altro rubato in Gran Bretagna durante una mostra a Blenheim Palace, eppure era un accessorio del gabinetto, e al contempo un' opera d'arte che si ricorda con tanto rispetto (e soldi).
Dalla “Fontana” di Marcel Duchamp, il pisciatoio, tale concezione artistica è proseguita negli anni ed ha avuto qui a Roma, nella mostra intitolata per l'appunto “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70”, uno tra i momenti più significativi di una costante culturale che è quella riconosciuta come arte.
Invece adesso, sorpresa delle sorprese, come sto dicendo, qualcosa che non può essere accettato esiste: il brutto sono i manifesti pubblicitari di “Open to Meraviglia” che ritraggono una pseudo-botticelliana “Venere/Ferragni” che si fa il selfie a Venezia o che mangia la pizza.
Scandalo degli scandali, perché queste immagini non piacciono proprio a quelli che si occupano d'arte, che in massa sono insorti sui social, e sicuramente ve ne sarete accorti se li avete come amici.
Incredibile è che non si parli di opere d'arte ma di manifesti pubblicitari, eppure l'accanimento è tale che fa godere leggerli dopo tutti quei commenti melensi che sono all'ordine del giorno nel mondo dell'arte. Insomma, questa volta ci si sfoga e pure senza freni.
Il linguaggio ovattato delle riviste artistiche che solitamente incensano ogni prodotto in quello stile politically correct stucchevole, senza termini che potrebbero essere offensivi, si è metamorfosato in analisi davvero critiche nonché indignate, piene di riferimenti a quello che non si può dire e scrivere, ovvero la categoria del “brutto”. Per me, una vera soddisfazione. Per il ministro, non so.
Insomma, era ora che questi ben pensanti che hanno in mano la fruibilità della cultura additassero qualcosa di negativo, ammettendo che esiste anche la categoria del brutto nei sacri giudizi della critica d'arte contemporanea.