di Adriana Dragoni *
“Nei musei le opere vengono accolte per l'eternità” dice Anna Imponente, Direttrice del Polo Museale della Campania, che amministra ben ventotto musei della regione. Ma un museo non è un ente immobile – aggiunge - perché, nel tempo, queste opere diventano sempre di più. Ne parla a proposito dell'acquisizione di un quadro per il museo nella napoletana Certosa di San Martino.
Anche la Certosa è un esempio di realtà in progress. Fu costruita, nel Trecento, dal celebre architetto e scultore Tino di Camaino, il senese che, per lo stile della sua arte e per avervi lavorato a lungo, è stato definito da Vittorio Sgarbi un artista del Meridione. La costruzione continuò sotto la direzione del napoletano Atanasio Primario, un architetto ignoto ai più, nonostante sia autore, tra l'altro, della famosa chiesa napoletana di Santa Chiara.
E questo fatto la dice lunga sui capricci della fama. Dopo la Controriforma, la Certosa mutò ancora, perché fu ristrutturata e ingrandita. La arricchirono via via sempre più di bellezza e di colori i marmorari, gli intagliatori, i creatori di pavimenti piastrellati, gli scultori e i pittori, tanti, un lungo elenco da Battistello Caracciolo a Luca Giordano. Oggi la Certosa è un universo di meraviglie, un mondo magnifico, che però conserva la ritrosa spiritualità e l'attenta preziosità dello spirito certosino. Nonostante che i certosini, dopo l'Unità d'Italia, ne furono scacciati e la Certosa, nel 1866, fu trasformata in museo.
Una trasformazione che non poté però cancellare il suo passato. Il quadro di recente acquisito per il museo è opera di Domenico Gargiulo (1612/1675), detto Micco Spadaro, dal mestiere del padre. Illustra l'eruzione del Vesuvio del 1631. Micco alla Certosa lavorò molto, ma non dipinse questo quadro per i certosini ma per commissione privata. Così come altri suoi due dipinti, che già si trovavano al museo di San Martino e gli sono identici per le notevoli dimensioni e simili per contenuto, perché rappresentano affollate scene di popolo.
In tutti e tre i quadri, le architetture sono state dipinte dal romano Viviano Codazzi, considerato uno specialista di prospettive. Nel quadro dipinto per primo, “La rivolta di Masaniello” (1647), il luogo rappresentato è la piazza del Mercato. Nel secondo, che parla de “La peste del 1656”, che uccise circa metà della popolazione cittadina, è il largo del Mercatello, che poi, trasformato, per volontà di re Carlo di Borbone, con un emiciclo disegnato dal famoso Luigi Vanvitelli, si chiamò Foro Carolino.
Oggi si chiama piazza Dante, ha un monumento del divin poeta che incombe sulla piazza, mentre l'emiciclo è intestato al Savoia Vittorio Emanuele II. Una trasformazione che ci dice pure qualcosa sulle trasformazioni politiche. Il luogo rappresentato ne “L'eruzione del Vesuvio del 1631”, l'opera recentemente acquisita e dipinta per ultima tra le tre, è lo spiazzo esterno a Porta Capuana.
In questi suoi quadri lo Spadaro, pur adeguandovisi, non soggiace alla classica prospettiva del Codazzi, e dipinge le sue scene di folla in una libera composizione. Così ne “La rivolta di Masaniello”, in cui le figure vengono disposte intorno a un fulcro pressappoco centrale. Così ne “La Peste del 1631”, dove Micco dipinge la tragedia in una forma decisamente drammatica e fa scorrere sulla tela aggrovigliati grumi di colore di figure concitate e lividi bianchi di cadaveri di appestati, mentre nel cielo staglia la figura della Vergine che implora pietà alla divina spada punitrice.
Questo senso di tragico dramma, di disperata religiosità, di peccato e di umana miseria ritorna nella rappresentazione de “L'eruzione del Vesuvio del 1631”, dove, nel cielo, al posto della Vergine, c'è San Gennaro che blocca con le mani aperte e le braccia tese in avanti, la nube scura che si dirige verso Napoli. In questo quadro non c'è solo la folla dei poveri ma anche una processione dei maggiorenti, che si svolge in tondo. La composizione circolare, che già veniva tentata nei due quadri dipinti precedentemente, qui è pienamente affermata.
Micco affrescò vari luoghi della Certosa e, senza bisogno del Codazzi, dipinse paesaggi e vedute, che inserì in una libera composizione circolare, che risulta molto naturale. Infatti si racconta che Micco, insieme a Salvator Rosa e altri compagni pittori, andava in giro esercitandosi nelle ripresa dal vero con colori a olio.
Fernanda Capobianco, Direttrice dell'Ufficio Mostra ed Eventi del Polo Museale della Campania, la quale, insieme a Rita Pastorelli, Direttrice del Museo di San Martino, ha curato l'evento, considera lo Spadaro un vedutista e riferisce il giudizio di Raffaello Causa che affermò (1956) che questi può essere considerato “l'iniziatore della pittura di paesaggio a Napoli e precursore della ottocentesca scuola di Posillipo”. La veduta dell'eruzione del Vesuvio, stando ora a San Martino, può essere messa a confronto con le altre vedute napoletane che vi sono conservate e che, per la maggior parte, hanno la medesima composizione circolare, iniziando dalla famosa quattrocentesca “Tavola Strozzi”.
La nuova acquisizione, portando l'attenzione sul suo autore, suggerisce un approfondimento della sua arte e, attraverso questo, una consapevolezza maggiore dell'arte napoletana seicentesca e non solo. Da parte mia, la considerazione del seicentesco Micco Spadaro come vedutista lo fa accostare anche ai vedutisti napoletani del secolo seguente, nelle cui opere ho più volte notato la composizione circolare, e ho chiarito che essa è dovuta a quella particolare concezione dello spazio che fa parte della tradizione napoletana sin dalla Magna Grecia.
Perché la realtà non è la scatola chiusa del mondo, come affermava Roberto Longhi a proposito della pittura di Masaccio, e non la si può comprendere guardandola e ritraendola da un unico punto di vista, come afferma la classica prospettiva toscana. Sebbene, purtroppo, nelle scuole e in qualche Facoltà universitaria, ancora oggi si insegni che lo spazio reale ha tre dimensioni, come teorizzò Euclide nel 300 a. C., e che lo si deve ritrarre per mezzo di quella classica prospettiva toscana, che, già nel Quattrocento, Leon Battista Alberti definiva artificiale, astratta.
Questa astratta prospettiva, applicata nel campo della psicologia individuale e nella logica sociale e politica, porta all'isolamento dell'uomo, come ha illustrato Edward Hopper, e al suo trasformarsi in un manichino, come ha suggerito Giorgio De Chirico. Non si può comprendere il mondo da un singolo punto di vista. E singoli punti di vista isolati, pur messi insieme, non formano la realtà, ma la scompongono, come suggerisce il Cubismo.
Ma la Certosa napoletana, sulla sommità della collina del Vomero, con la vista di un ampio, magnifico panorama sulla città e sul curvo orizzonte del mare, suggerisce una diversa verità, nascosta ai più. Che la realtà è curva e la si può dipingere su una tela usando una diversa prospettiva, che si fonda su una geometria iperbolica. Speriamo che questa nuova acquisizione del quadro di Micco possa anche suggerire a una cultura “in progress” l'esistenza di una prospettiva napoletana, che non è soltanto una prospettiva artistica.
* Autrice de “Lo spazio a 4 dimensioni. La scoperta di una prospettiva spazio-tempo” ed. Tullio Pironti