Il Financial Times ha scritto che da venerdì scorso è entrato in vigore un provvedimento del governo argentino che vieta agli abitanti di convertire i loro pesos in dollari. Comprare dollari è uno dei pochi modi che hanno gli argentini per proteggersi dall’inflazione (oltre che per viaggiare all’estero, importare prodotti e fare molte altre cose).
Si tratta dell’ultima di una serie di decisioni del governo (un mix di misure di protezionismo e politiche monetarie poco ortodosse) che hanno lasciato scettici economisti e analisti finanziari, e hanno fatto nascere il timore che l’Argentina sia nuovamente vicina a fare bancarotta.
L’Argentina si è già trovata nella situazione di non poter far fronte ai pagamenti degli interessi sul debito. È accaduto l’ultima volta negli ultimi giorni del 2001 (Piercamillo Falasca ha spiegato l’evento e le sue conseguenze su Epistemes.org). Da allora l’economia argentina è riuscita a crescere, anche se non ha mai raggiunto i livelli pre-default.
Per la presidenta Cristina Kirchner l’obbiettivo del 2012 è di raggiungere una crescita del PIL pari al 4,5-7,5% (la stima mssima del Fondo monetario internazionale è del 4,2%). Per ottenere questo risultato, Kirchner ha aumentato la spesa pubblica, tanto che nel 2012, probabilmente, il bilancio si chiuderà con il primo deficit primario (cioè le spese dello stato supereranno le entrate, prima ancora che vengano conteggiate le spese per interessi sul debito) dopo anni.
L’Argentina però, da quanto ha fatto bancarotta, non ha più accesso al mercato del debito mondiale: in altre parole nessuno si fida a prestarle soldi e il paese non emette titoli di stato. Così i soldi per finanziare la politica di spesa pubblica voluta da Kirchner sono arrivati dalla Banca Centrale, che a partire dal 2010 ha progressivamente perso indipendenza, fino a diventare oggi una succursale del governo. Dal 2010 ad oggi circa 16 miliardi di dollari sono passati dalla banca centrale al governo.
Nel contempo la Banca centrale continua a immettere moneta sul mercato. È una pratica normale, quando un’economia cresce, che la Banca centrale stampi moneta per “accompagnare” lo sviluppo economico. Ma la Banca centrale argentina sta stampando molta più moneta di quanto sia necessario. Nel 2011 M2 (uno dei diversi indicatori, chiamati aggregati monetari, usati in economia per misurare la quantità di moneta in circolazione) è aumentato del 29 per cento, una cifra estremamente alta per gli standard internazionali, e per il 2012 è previsto un altro aumento del 26 per cento.
L’immissione di così tanta moneta sul mercato ha un effetto quasi immediato: l’inflazione. Quando aumenta la quantità di denaro in circolo, ma non aumentano di pari passo i beni e i servizi prodotti, il denaro perde di valore. A parità di denaro, quindi, diventa più difficile comprare gli stessi beni che ci si poteva permettere qualche tempo prima.
Secondo il governo argentino, l’inflazione procede in maniera normale, almeno per un paese in via di sviluppo. Secondo l’INDEC (cioè l’ISTAT argentina) l’inflazione è intorno al 9%. Secondo alcuni ricercatori indipendenti (multati e minacciati dal governo, scrive il Washington Post) l’inflazione è a più del 25%, un dato su cui sono concordi quasi tutti gli analisti. Il settimanale economico britannico Economist ha deciso di non utilizzare più i dati INDEC nei suoi articoli.
Un’inflazione così alta spaventa gli argentini, che negli ultimi 30 anni hanno vissuto tre momenti di iper-inflazione (due volte negli anni ’80 e poi nel 2002, in seguito al default). Il modo più facile per difendersi da una moneta che perde rapidamente valore è quello di acquistare un’altra moneta che invece resta stabile. Oppure si possono comprare proprietà denominate – ovvero che si pagano e si comprano abitualmente – in un’altra moneta che resta stabile.
Questo è proprio quello che hanno cercato di fare gli argentini: hanno comprato dollari, li hanno messi in banca e hanno comprato immobili (case, ville, terreni) con prezzi denominati in dollari. Per acquistare dollari bisogna rivolgersi (direttamente, o più spesso tramite altre banche) alla banca centrale. Quella Argentina ha riserve in dollari per circa 50 miliardi.
Il problema è che anche buona parte del debito argentino è denominato in dollari. Sedici di quei 50 miliardi di dollari serviranno a ripagare gli interessi sul debito in dollari per i prossimi cinque anni. Cambiare la denominazione del debito da dollari a pesos equivale a fare default (ripagare un debito contratto, ad esempio in dollari, con una moneta che perde valore e che può essere stampata a piacimento, significa una perdita potenzialmente enorme per chi ha prestato i soldi, inizialmente, con una moneta stabile).
Il governo argentino ha messo in pratica molte misure per impedire che i dollari della banca centrale escano da paese. L’ultima misura è quella annunciata dal Financial Times: vietare ai cittadini argentini di prelevare in dollari. Ad esempio, oggi, per un cittadino argentino è impossibile prelevare dollari ad un bancomat, se si trova in viaggio per gli Stati Uniti. Altre misure hanno colpito gli importatori (come viene spiegato in un altro articolo del Financial Times). Chi vuole importare prodotti in Argentina (dai giocattoli cinesi ai computer Apple) deve ricevere un autorizzazione ministeriale e deve esportare merci argentine per un valore pari alle merci che ha importato. Così i rivenditori di auto devono vendere all’estero soia o noccioline per poter avere l’autorizzazione ad acquistare all’estero le automobili che vendono.
Con questo sistema, il governo argentino spera di mantenere in equilibrio la bilancia commerciale (la differenza tra le importazioni e le esportazioni) e così evitare che il peso si svaluti ancora nei confronti del dollaro. Anche l’arrivo di capitali esteri sotto forma di investimenti, che potrebbe migliorare la situazione argentina portando nel paese dollari o altre monete forti, oggi è praticamente impossibile, visto che il governo ha nazionalizzato poche settimane fa una grande compagnia petrolifera e sono pochi gli investitori disposti a rischiare di fare la stessa fine.
Davide Maria De Luca