di Patrizio Ruviglioni
(da rivista Rolling Stones)
Pubblichiamo un estratto dal libro L’arte di essere Marco Pannella. Incredibili storie vere sull’uomo che ha scosso, scandalizzato e cambiato (in meglio) l’Italia, scritto da Patrizio Ruviglioni e pubblicato da Blackie Edizioni, che ringraziamo.
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Ci sono due questioni più di altre sulle quali ho sbattuto la testa mentre lavoravo a questo libro. La prima: come ricavare dei principi che siano validi nelle nostre vite di tutti i giorni dall’esperienza di un personaggio così esuberante, esagerato, diverso da tutti ‒ un alieno, come spesso verrà definito. La sua è una personalità gigante, che rischia di sembrare inarrivabile; come si evitano i paragoni tra noi e lui? Che c’entra la politica, almeno quella di Palazzo, con la nostra quotidianità?
Ho cercato quindi di ragionare sullo spirito con cui ha fatto ciò che ha fatto, sul metodo piuttosto che sul merito. Le battaglie per i diritti civili, per la giustizia, per la tutela dei dimenticati, penso siano tutte (o quasi) battaglie giuste, ma alla fine non credo di sminuirle se dico che restano comunque battaglie politiche, e che per quanto affidate a dei princìpi rimangono sempre confinate nel circolo delle opinioni.
Per questo non volevo che questo libro fosse una «guida» riservata solo a chi si rivede nelle idee del Partito radicale, ma un lavoro con degli insegnamenti tratti dalle vicende di Pannella. E quindi ‒ ma li scopriremo un po’ alla volta ‒ mi è sembrato giusto parlare di valori come la testardaggine, la fiducia in sé stessi e nelle proprie idee, la gioia di combattere per cause più grandi di noi, il non darsi mai dei confini e delle etichette, il sogno di voler cambiare le cose e il coraggio di dire ciò che si pensa anche a rischio di risultare scomodi e finire isolati. O, al contrario, di decidere di non dire più nulla: una delle volte che Pannella, oratore da competizione, ha maggiormente colpito l’opinione pubblica è stata quando si è messo il bavaglio in diretta tv. Larga parte della sua iconicità deriva paradossalmente dai silenzi, non dai discorsi, dagli scioperi della fame e dalle immagini della sua sagoma smagrita, non dalla sua imponente fisicità.
In questo senso mi sono anche chiesto cosa possa rappresentare un politico del genere per la Generazione Z, che non ha fatto in tempo a intercettarlo, al massimo lo sente evocato nei ricordi dei genitori, e ha una generale disillusione per un certo tipo di politica. Lo so, tutti questi racconti sulle sue campagnein bianco e nero possono risultare impolverati, ma l’attualità di Pannella risiede proprio nelle sue battaglie, persino più urgenti oggi che ai suoi tempi. Pannella potrebbe sembrare erroneamente un vecchio arnese e non il vulcano ancora attivo che è stato.
Ma penso che con la riscoperta della dimensione collettiva e di piazza, dell’interesse per temi come i diritti civili e l’ambiente, i ragazzi di oggi siano forse quelli con più punti di contatto con Marco Pannella dagli anni settanta in poi. Credo che quest’uomo possa essere una specie di guida spirituale: uno che prima di tutti è stato «alleato» delle minoranze sulla questione dei diritti civili, uno che ha vissuto la sua vita all’insegna di una fluidità ante litteram, all’insegna della libertà e dell’accettazione di sé. Ecco, se lui ce l’ha fatta, in tempi ancora più ostili, la sua figura può ispirare i ragazzi e dire loro che comunque no, non sono soli, e non lo sono mai stati.
Il secondo aspetto con cui ho fatto a testate, invece, riguarda l’intenzione di non ricavarne un’agiografia, un ritratto all’acqua di rose; di non cercare, cioè, di dipingerlo come un santo. Pannella, l’abbiamo detto, non c’entra niente con gli altri politici, ma è a tutti gli effetti un politico. Nel bene, per esempio per quanto riguarda l’alta considerazione che aveva delle istituzioni e della nostra Costituzione, quasi paradossale rispetto ai colleghi di oggi, e in apparente contrapposizione con la definizione che lui stesso, pur con le precisazioni che riteneva necessarie, prendeva volentieri per sé di «antisistema».
Però è un politico, Pannella, anche nel male, nel senso che si porta visibilmente dietro i vizi e i difetti della sua categoria, oltre che una serie di contraddizioni in calce e piccole storture personali. Robin Hood, per citare un altro personaggio a cui è stato spesso comparato, rubava ai ricchi p. er dare ai poveri, ma Robin Hood era, al di là di tutto, un ladro. E Pannella, allo stesso modo, è un politico con una visione diversa delle cose, a tratti secondo molti illuminata, ma pur sempre un politico. Con i colleghi condivideva un ego enorme e una stima nei propri mezzi illimitata, grazie alla quale si riteneva una specie di profeta, sempre nel giusto. Era innamorato di sé, dei monologhi lunghissimi in cui non perdeva il filo, e qualcuno scriveva che fosse un «narciso».
In ogni caso, era insofferente al contraddittorio: chi gli dava contro finiva in automatico dalla parte dei cattivi o, peggio, derubricato alla stregua di chi si sbaglia, di chi non capisce. In linea con le manie da padreterno che ogni tanto facevano capolino in alcune scelte e comportamenti, è facile immaginare che in quel momento dentro di lui scattasse una voce che recitava: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
La gestione stessa del Partito radicale ha risentito dei suoi tic. Non aver mai voluto dare una vera e propria struttura all’organizzazione, che al contrario della concorrenza è rimasta esile e basata sulla sua stessa figura, è sempre stato uno degli aspetti più critici: sicuramente la sua attività lontana dalle ideologie e incentrata su di sé ha anticipato la personalizzazione della politica sdoganata poi da Craxi e soprattutto da Berlusconi. Oggi, per dire, è normale che un partito si identifichi direttamente con il proprio leader, e sono in molti a ritenere che questa «nuova» modalità abbia spalancato le porte al populismo e, in generale, abbassato la qualità del dibattito pubblico.
Inoltre l’eccessiva personificazione della sua politica ‒ alla quale, spesso, si accompagnava anche quella delle battaglie stesse ‒ ha impedito al partito di sopravvivere davvero alla scomparsa del Capo, e in generale ha reso difficile il tema della successione. Nelle scuderie radicali, come vedremo, si sono formate decine di personalità di spicco, politiche e non solo, eppure quasi tutte hanno proseguito la loro carriera lontano dal Marco-padre, che puntualmente vedeva come una minaccia chiunque gli rubasse un po’ d’attenzione e finiva con l’affossare qualsiasi allievo che ne potesse raccogliere l’eredità in tempi, secondo lui, troppo precoci.
Degli avversari, infine, si curava il giusto, predicando un certo distacco dalle loro faccende: diceva di essere diverso, di essere uno che amava, uno felice, che se la godeva; sottinteso, uno migliore. E poi, a fronte di una coerenza di fondo difficile da criticargli ma comunque abbastanza sofisticata, e in fondo realmente chiara solo a lui stesso, aveva un’idea delle alleanze abbastanza farfallina: proprio perché il Partito radicale era aperto a tutti, prendeva accordi di volta in volta diversi con questa o con quest’altra fazione, animando quei detrattori che in lui vedevano uno disposto a cambiare amicizie in base alla convenienza, o meglio un gran paraculo.
Non vorrei, quindi, che ne uscisse l’immagine di un benefattore delle minoranze, un incompreso. E non vorrei prestarmi all’equivoco per cui sia stato una sorta di Masaniello, un capopopolo eversore e rivoluzionario, nonostante la sua parabola di politico venuto «da fuori», di eterno outsider che ha cambiato il nostro Paese e il modo stesso di fare politica, potrebbe lasciarlo presagire. Non è così, perché l’aggettivo «rivoluzionario» non gli è mai piaciuto, come del resto non gradiva il suo opposto ‒ troppo ideologico anche quello ‒ «riformista», a cui preferiva semmai «riformatore». E perché, a discapito di quanto può sembrare, l’unica rivoluzione che ci può ispirare è una rivoluzione intima e personale.
È la rivoluzione dei difetti, che lui per esempio ha trasformato in un tratto distintivo. Gli dicevano che si contraddicesse, che cambiasse troppo spesso alleati, e lui ha sublimato questa definizione e si è trasformato nel migliore spot possibile del «contengo moltitudini» di Walt Whitman, tanto che si è finiti a definire Pannella «esagerato», sostenendo che un corpo così grande e diverso da quello dei colleghi gli servisse per contenere tutte le sue ‒ appunto ‒ moltitudini. È una storia, alla fine, di scoperta di sé stessi: se gli altri si approcciano alla politica in un certo modo, appiattendosi sul partito e le ideologie che propaga, Pannella ha ascoltato sé stesso, è diventato sé stesso e ha plasmato in questo senso il mondo intorno fino all’estremo
Per certi versi si è sottratto dall’agone politico: mentre gli altri gareggiavano in lunghe campagne elettorali, si è sfilato per concentrarsi sui singoli referendum, percependo che quella, evidentemente, fosse la dimensione davvero adatta a ciò che sentiva. Poco importa che sia stata una decisione difficile, e che magari lavorando in un altro modo avrebbe raccolto più voti; non sarebbe stato sé stesso, e tanto basta. Era iracondo, e perdeva spesso le staffe, ma oggi è ricordato solo come «passionale», perché ha incanalato queste caratteristiche ed è diventato un fiume sempre in piena.
E poi è «cresciuto» con gli anni, tant’è che uno dei periodi della sua vita da cui ricaveremo più insegnamenti è proprio la vecchiaia. Si è scoperto, ha scoperto nuove parti di sé, ha preso confidenza con ciò che era davvero: dal corpo – «questo corpo…» sospirò in un’intervista da anziano in cui ammetteva di dovere molto all’uso che ha fatto del suo fisico – usato come arma di digiuno e lotta, al linguaggio così sicuro e colto da potersi permettere di inserirci delle parolacce – «Se io ho figli? Se mi permette questi sono cazzi miei» dice in un talk show nel 2016 –, fino all’atteggiamento disinvolto con cui affrontava il suo grande vizio, il fumo, equiparandolo ai grandi piaceri della vita per i quali si batteva.
L’espressione più inesatta da usare in questo caso, probabilmente, sarebbe quella per cui Pannella è andato «controcorrente»: semplicemente se ne stava sulla sponda in cui si trovava maggiormente a proprio agio. Rivedere adesso la sua storia davanti a tanta omologazione diffusa è una gioia, per come ha assecondato sé stesso, per la passione che ci metteva, la sete di «giustizia» e la capacità di reinventarsi sempre, di trovare nuove battaglie e modi di portarle avanti.
Invece all’epoca, la gioia, è stata sua: la gioia di combattere i mulini a vento, con la speranza assurda che qualcosa prima o poi potesse cambiare. E qualcosa, alla fine, è cambiato davvero. L’insegnamento più grande che ci ha lasciato, quindi, riguarda soprattutto noi. Pannella l’esagerato parla a tutti: a chi comincia dice di insistere sulle proprie idee, di crederci davvero; a chi è già avviato dice che il meglio deve ancora arrivare; agli altri, che è sempre il momento giusto per mettersi in moto. È il nostro extraterrestre-guida per prenderci tutto. Per prenderci i nostri spazi, la nostra voce e i nostri tempi. Essere noi stessi, senza mediazioni e all’ennesima potenza. Scoprirci, investire su di noi, stare attenti ai piaceri, accettare difetti, imperfezioni e contraddizioni con il sorriso, e trasformarli in punti di forza. Prenderci, soprattutto, la felicità...