di Mario Arpino
Se ne parla un po’ meno, ma la strage in Siria continua, con atrocità da ambo le parti. Secondo una stima di questi giorni dell’Osservatorio per i diritti umani siriano – si tratta di una Ong – su un totale di oltre 30 mila deceduti dall’inizio della rivolta, tra il 50 e il 60 per cento sarebbero morti negli ultimi cinque mesi. Ma i numeri veri non li sapremo mai, visto che quelli che abbiamo provengono per lo più da informazioni di parte e anche quelli dell’Onu sono poco attendibili.
Eppure il mantra dei nostri giorni continua ad essere la “Responsibility to protect” (R2P), che l’Onu ha lanciato da anni, ma che non riesce in alcun modo a far riconoscere, né tantomeno a far applicare in modo equanime. Quando ci è riuscito, purtroppo questa “responsabilità” è stata utilizzata quale foglia di fico per finalità assai meno nobili, come la campagna di Libia ci ha insegnato.
Ma in particolare l’opinione pubblica europea, quando si tratta di difendere i “deboli” – o i presunti tali – è sempre in prima fila e non tarda a cadere nella trappola. Acriticamente, dogmaticamente, istintivamente. Quindi, in forte carenza di analisi. Da qui all’intervento dei volonterosi, con o senza Onu, il passo può essere anche assai breve. Non importa poi se, quando i deboli, capitalizzando l’aiuto esterno, riescono a prevalere, inizia una spirale di vendette che porta ad ulteriori atrocità. Alle quali però sarà dato assai poco risalto, anche perché gli Stati sostenitori si renderanno prontamente latitanti, come se la protezione umanitaria improvvisamente non fosse più affare loro.
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