di Ernesto Galli della Loggia
(da Corriere della Sera)
«Potrebbe farmi velo la conoscenza personale che ho dell’imputato. Ci sono uomini di Chiesa che danno subito l’impressione di custodire nel cuore una fede»
Il processo a carico del cardinale Angelo Becciu di cui inizia domani in Vaticano la seconda udienza è la replica a oltre un secolo di distanza — in una sede davvero inimmaginabile — di un processo celebre: quello ad Alfred Dreyfus: il capitano ebreo dello Stato Maggiore francese, vittima innocente del feroce pregiudizio antisemita delle alte gerarchie militari francesi e condannato all’ergastolo nel 1894 sotto l’accusa di spionaggio a favore della Germania.
Lo è perché ogni processo in cui la condanna appare essere stata già decisa in anticipo mediante la fabbricazione di prove palesemente false e in cui l’imputato è di fatto un capro espiatorio, è una replica sostanziale di quell’evento.
Potrebbe farmi velo, lo ammetto, la conoscenza personale che ho dell’imputato. Ma ci sono uomini di Chiesa che danno immediatamente l’impressione, come si dice, di crederci, di custodire nel cuore una fede e una promessa, e altri no. Altri di cui immediatamente capisci che hanno cose ben diverse per la testa. Angelo Becciu mi è sempre sembrato appartenere alla prima categoria.
Posso sbagliarmi, naturalmente. Ma se mi sbaglio, se egli ha commesso realmente quanto gli viene addebitato, come si spiega allora la clamorosa violazione delle regole che ha caratterizzato l’intera istruttoria del processo? Come si spiega che per ben quattro volte a istruttoria già in corso il Pontefice sia intervenuto con la sua autorità di legislatore assoluto per consentire nuove procedure, e stabilire nuove norme immancabilmente sfavorevoli a Becciu?
Mi chiedo in quale altro luogo del mondo civile ciò sarebbe stato permesso senza che ne nascesse uno scandalo. E come si spiega poi il tentativo dell’accusa di evitare la presenza in aula del principale testimone dell’accusa stessa, sottraendo così costui ad un prevedibilmente scomodo controinterrogatorio da parte della difesa dell’imputato?
Ed è normale che un tale fondamentale testimone non sia altri, guarda caso, che colui che nella prima fase dell’inchiesta era lui il principale imputato: il quale oggi, invece, è miracolosamente uscito del tutto dal mirino dei giudici? È lecito o no nutrire qualche sospetto circa una così straordinaria trasformazione di ruoli?
Sono, quelli che ho elencato, tutti elementi ben noti, dei quali in questi mesi gli organi d’informazione hanno riferito, certo, ma (tranne un caso) lo hanno fatto sempre in tono diciamo così sommesso, quasi reticente, spesso tra parentesi, e soprattutto evitando di legare i vari elementi tra di loro per mettere in luce la singolare qualità del procedimento avviato dietro le mura leonine. Convinti, evidentemente, che solo al Cairo si possa amministrare la giustizia secondo i desideri del potere.
Potere che nel nostro caso — anche questo va ricordato — si può dire che dal suo canto abbia già provveduto ad emettere la virtuale condanna preventiva dell’imputato — addirittura prima ancora che egli divenisse giuridicamente tale — sanzionandolo con la perdita di tutti gli attributi della sua carica cardinalizia. È immaginabile, mi chiedo ancora, che dopo una tale sanzione dall’alto possa esserci la smentita clamorosa di una sentenza di assoluzione? E che razza di processo è un processo in cui almeno in parte la pena è già irrogata in anticipo, a prescindere dall’esito dello stesso?
Sono abbastanza evidenti i due motivi della disattenzione della stampa e dell’opinione pubblica per i tanti aspetti poco limpidi, per usare un eufemismo, di tutta questa vicenda. Da un lato c’è in molta parte del pubblico, io credo, la volontà, spesso morbosa, di condanna a tutti i costi, di punizione esemplare nei confronti di chiunque sia a qualunque titolo sospettato (meglio se un potente naturalmente) di aver approfittato della propria carica per un vantaggio finanziario, di essersi messo illecitamente dei soldi in tasca.
E dall’altro lato ci sono la figura e il prestigio di papa Francesco.
Il lettore capirà quanto delicato diventi a questo punto il discorso. La figura del Pontefice gode infatti di un vastissimo consenso che lo mette facilmente al riparo dalle critiche. È un consenso cui hanno contribuito il contenuto ma forse soprattutto il tono di molte sue parole, che gli hanno conquistato tra l’altro l’appoggio pressoché incondizionato del sistema mondiale dei media. I quali, consacrandone un’immagine liberal, ne hanno accresciuto ancora di più la popolarità. È questa molto probabilmente la ragione del sostanziale silenzio che fin qui è valso a mantenere in ombra le circostanze assai anomale che hanno caratterizzato il procedimento contro Becciu.
Ma i fatti sono fatti, ed è difficile sfuggire all’interrogativo cruciale che essi pongono: come si armonizzano le circostanze suddette non solo con l’immagine liberal di Francesco ma vorrei dire più in generale con quell’esercizio della giustizia che, se non del Vaticano in quanto Stato, dovrebbe essere almeno tra le prime preoccupazioni di un Pontefice? Confesso di non saper dare una risposta. E di non volere neppure provare ad azzardarne una. Ma può essere questa una buona ragione per non porsi la domanda, specialmente se ne va di mezzo la sorte di un uomo?
(da Corriere della Sera)