di Paolo Mieli (da Corriere della Sera)
Adesso che, con l’uscita dell’ultimo militare americano, in Afghanistan si è voltata pagina, va detto che negli ultimi giorni l’atteggiamento dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti è stato poco generoso. Assai poco generoso.
Nell’antico continente si sono levate voci quasi esclusivamente critiche come se noi europei negli ultimi venti anni o anche negli ultimi venti giorni fossimo stati coinvolti solo inconsapevolmente in quell’avventura.
Censure all’operato dell’amministrazione americana sono venute — è vero — anche da moltissimi intellettuali e politici statunitensi: ma quasi tutti i critici americani hanno messo in evidenza il loro precedente coinvolgimento in quel che è accaduto nell’ultimo ventennio. Noi no.
Anzi qui in Europa si è ritenuto che, quantomeno nel discorso pubblico, fosse questa l’occasione propizia per rimettere in discussione i fondamenti dell’intera alleanza occidentale. A partire, ovviamente, dalla Nato. Non per «rompere» l’Alleanza Atlantica, ha precisato sul Messaggero Romano Prodi, ma per renderla «più efficace» e «più capace» di affrontare le nuove realtà del pianeta.
La nostra accusa a Washington è stata sostanzialmente di non averci avvertito dei rischi che avremmo corso al momento dell’evacuazione. E di non aver voluto ascoltare quel che avevamo da dire sulle modalità dell’esodo. Il primo rimbrotto, quello di non averci messi in guardia sui pericoli insiti nell’abbandono del campo in cui siamo stati sconfitti, è, comunque lo si formuli, davvero puerile: chiunque fosse sul posto aveva gli strumenti per comprendere da sé quel che poteva accadere.
Limitiamoci perciò a prendere in considerazione la seconda parte del rilievo: a quel che si intuisce, gli europei — se interpellati — avrebbero suggerito di non lasciare, a luglio, la base di Bagram così da far decollare dall’aeroporto di quell’istallazione militare gli aerei predisposti all’espatrio delle truppe Usa. Può darsi che fosse un consiglio sensato (anche se la strada che conduce a Bagram è priva di protezioni e ripari, al punto d’essere stata ribattezzata «la via del tiro a segno»).
Ma in buona sostanza l’accoglimento di questo consiglio non avrebbe cambiato granché l’ordine delle cose. Né avrebbe attenuato la drammaticità dell’uscita da una guerra perduta. A meno che queste critiche sottintendessero la voglia dei Paesi europei di rimanere in Afghanistan, sostituendo con propri soldati quelli americani in partenza. Ma non sembra che fosse questa l’intenzione dell’Europa. Di nessun Paese europeo.
E, in tema di sottintesi, proviamo ad analizzare quali potrebbero celarsi dietro la messa in discussione della Nato. L’Alleanza Atlantica ha perso la propria funzione primaria ben trentadue anni fa, con il crollo del muro di Berlino. Da allora è sopravvissuta come struttura militare, sostanzialmente a guida Usa, atta ad intervenire nelle crisi in ogni angolo del pianeta.
Laddove un’Europa «parassita» (magistralmente ritratta da Sergio Fabbrini su Il Sole 24 Ore) non era ad ogni evidenza disponibile a fare la propria parte. Mai. Neanche negli incendi che si sviluppavano ai propri confini. All’Europa è stato concesso di addossarsi solo il 20% dei costi della Nato e anche per questo, ragionevolmente, la pari dignità ai vertici è stata pressoché formale. Adesso — dopo una serie di sconfitte — è chiaro che la Nato (forse) sopravviverà ma di interventi come quelli del passato non ne vedremo più.
Ora si vedrà cosa è capace di mettere in piedi il nostro continente. Al momento l’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell, ha annunciato (su questo giornale, a Federico Fubini) la creazione di una «Initial Entry Force» di «cinquemila soldati in grado di mobilitarsi a chiamata rapida». Un ottimo inizio, anche se su quella «mobilitazione a chiamata rapida» è lecito nutrire qualche perplessità. Ma di qui alla creazione di una struttura militare continentale in grado di affrontare le crisi che — è immaginabile — si prospetteranno, il passo è lunghissimo.
Senza contare che un tal genere di struttura militare sarà efficace solo se avrà alle spalle un’entità politica unitaria e — come ha efficacemente messo in evidenza su queste pagine Angelo Panebianco — richiederà «una proiezione esterna, con finalità di pacificazione, nelle zone più turbolente del Medio Oriente o dell’Africa, da cui possono arrivare le minacce all’Europa».
Per avere questo genere di «proiezione» il nuovo esercito europeo dovrebbe essere dotato di quella speciale «licenza» atta a prevenire le crisi con libertà di movimento - come è da sempre per tutti, proprio tutti gli eserciti - lungo alcune linee di confine tra la luce e l’ombra.
Niente di tutto questo, però, si intravede all’orizzonte. L’Europa è da decenni un continente specializzato nell’arte di «salvare la pace» ricorrendo esclusivamente alla diplomazia. Non c’è Paese europeo che esiti al cospetto della prospettiva di mediare, interloquire e dialogare. Meglio se con i regimi più illiberali della terra. È l’unica cosa che sappiamo fare.
Nei giorni del lutto si versano lacrime e si alza la voce. Poi si torna immediatamente a mediare, interloquire, dialogare. Il che può apparire positivo a fronte di grandi sconvolgimenti come quelli di questi giorni.
Ma non è detto che un insieme di 27 Paesi mediatori — talvolta in ordine sparso — del tutto incapaci di far valere, neanche in casi estremi, la forza, sia in grado di dar vita ad un mondo più pacificato di quello che ci lasciamo alle spalle.
(da Corriere della Sera)