di Giuseppe Tesauro (da Il Mattino)
Non c’è dubbio che il passare del tempo meriti ogni tanto qualche aggiustamento. Questo è vero anzitutto per noi umani, ma anche per le istituzioni delegate a regolare il modo di essere e di agire del corpo sociale. È questo, in ipotesi, il caso del cambiamento che si spera o si teme di realizzare per il nostro Parlamento all’esito del passaggio referendario fissato per il prossimo 20-21 settembre, ultimo atto della complessa procedura prevista per la modifica di norme costituzionali, nella specie gli artt. 56, 57 e 59.
La fase parlamentare ha visto due votazioni favorevoli della Camera e altrettante del Senato, così che allo stato esiste una legge costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari. Tuttavia, poiché la seconda approvazione del Senato non ha avuto i due terzi dei consensi, 71 senatori, come previsto, hanno chiesto la conferma della legge costituzionale con un referendum popolare, che è stato infine indetto per il 20-21 settembre 2020, contestualmente all’elezione di alcuni consigli regionali.
Fino alla nuova legge costituzionale, la Camera aveva 630 deputati e il Senato 315 senatori, al netto dei senatori a vita e di quelli di diritto. La nuova legge prevede la riduzione per la Camera a 400 deputati e per il Senato a 200 senatori. Gli obiettivi che si leggono nella legge e dichiarati a gran voce sono in particolare due: da un lato, rendere più efficace, in quanto più veloce, il processo decisionale delle due Camere.
Ciò per rispondere con maggiore tempestività ed efficacia all’adeguamento dell’ordinamento all’evoluzione delle esigenze del popolo; dall’altra, ridurre i costi della politica di circa 500 milioni di euro per ogni legislatura. In più, vi sarebbe un allineamento al resto d’Europa, in quanto i numeri dei parlamentari eletti sono quelli più alti. Questo è il quadro che ci attende il 20 e 21 settembre dinanzi alle urne.
Nel frattempo, di rilievo potrebbe essere l’esito di quattro ricorsi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato portati all’attenzione della Corte Costituzionale, riguardanti il referendum sul taglio dei parlamentari («Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Modifiche agli articoli 56, 57, e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari?») e le elezioni per alcune Regioni fissate nello stesso election day settembrino, con udienza in camera di consiglio fissata per il 12 agosto.
Confermo subito quanto già espresso in precedenti occasioni su questo giornale, anche a costo di rimanere fuori dal coro collegato ai frequenti passaggi elettorali: il mio convincimento sul tema del taglio dei parlamentari e della sua portata più generale è decisamente negativo e sinceramente preoccupato, almeno per la consistenza della riduzione, che avrebbe potuto essere sensibilmente inferiore e soprattutto avrebbe dovuto essere inserita in un progetto di riforma complessivo.
Ed in proposito comincerei dalla pretesa opportunità di allineamento ai numeri europei, numeri che rivelano un quadro alquanto significativo. In assoluto e relativamente ai parlamentari eletti, l’Italia è al primo posto con 945, seguita da Germania (709), Regno Unito (650), Francia (577), Polonia (560) e Spagna (588). Tuttavia, se si guarda alla percentuale di parlamentari per 100.000 abitanti, di certo più significativa rispetto alla ricaduta di sistema, si scopre (fonte Senato) che l’ltalia è ventitreesima su 28, con una percentuale di 1,6, Bulgaria con il 3,3, Malta con il 14,5, Lussemburgo con l’11,2, tanto per citare qualche esempio alquanto eloquente. In altri termini, l’Italia ha solo 1,6 parlamentari per ogni 100.000 abitanti.
Ora, è vero che i nostri parlamentari sono in assoluto più numerosi che in altri Paesi, ma è sicuro che un taglio così vistoso come quello che si prefigura è tutto piuttosto che un passo avanti nel rafforzamento del sistema democratico, fondato in primo luogo sulla rappresentatività e in secondo luogo sulla governabilità. Il vero è che la rappresentatività dei parlamentari, coniugato con il mandato libero, è certamente l’indice maggiore del tasso democratico del sistema, per una ragione molto semplice. Infatti, è un elemento che consente anche alle minoranze di contribuire, pur con numeri bassi, a costruire la volontà del popolo in seno all’organo che le rappresenta allo stesso modo delle maggioranze.
Certo, la legge elettorale, che è legge ordinaria e non costituzionale, può stabilire con ragionevolezza un limite percentuale per la presenza di minoranze in Parlamento, ciò che è tuttavia cosa diversa dalla limitazione complessiva dei parlamentari, che comporta necessariamente un ampliamento dei collegi fino a disperdere la conoscenza e quindi il contatto dell’elettore con il suo rappresentante
E ciò con il rischio e dunque l’aggravante di concentrare la scelta dei candidati quasi esclusivamente nella nomina dei vertici dei partiti, senza alcuno spazio almeno residuale per scelte e indicazioni autonome. Se poi si arriva all’abolizione o quasi delle pensioni o vitalizi che dir si voglia, l’indipendenza del parlamentare si ridurrà ancor più ed in modo più palpabile, fino a riportarci a qualcosa di molto simile all’elezione o alla nomina per censo, sicuramente non per meriti civili.
Quanto all’obiettivo molto sottolineato di risparmio lascia veramente sconcertati. Mi permetto di ricordare che la democrazia non ha prezzo, soprattutto in un Paese dove l’atavica propensione per una spesa pubblica da cicala e non certo da formica ci ha portato per eccessi molto meno nobili ad un debito pubblico indecente, che costa alla nostra e costerà alle generazioni future molto più che l’interesse quasi nullo dell’eventuale ricorso allo sconosciuto ma contestato Mes e che ci fa pagare anche un prezzo politico che solo il Covid ha indotto l’Unione Europea a trascurare temporaneamente.
In definitiva, l’obiettivo della maggiore efficacia e tempestività del processo decisionale del lParlamento è un obiettivo importante e condivisibile, ma certo non è realizzabile con il solo taglio così vistoso del numero dei parlamentari e insieme senza il dovuto rispetto dei fondamentali di una moderna democrazia.
Non a caso alcune forze politiche hanno da tempo sottolineato l’esigenza di una riforma complessiva e articolata del Parlamento e del suo modo di funzionare, coniugando una ragionevole riduzione numerica almeno con una legge elettorale con essa coerente, come più volte sollecitato, implicitamente o esplicitamente, dalla Corte Costituzionale, e un tentativo di bicameralismo reale, dunque imperfetto, se così si può dire.
(da Il Mattino)