di Gian Domenico Caiazza *
(da Il Riformista)
Perfino se fossero vere le sconclusionate ma gravissime insinuazioni del dott. Di Matteo nei confronti del Ministro di Giustizia Bonafede, la gravità del desolante scontro mediatico tra campioni del giustizialismo populista in diretta tv sta altrove. E cioè nell’essere noi ormai assuefatti alla idea che una sconcertante performance televisiva come quella messa in scena dal dott. Di Matteo rientri nell’ordine delle cose che possono legittimamente accadere nel nostro Paese, e che infatti regolarmente accadono.
Dalla sceneggiata televisiva del pool di Mani Pulite in tv, maniche di camicia, barbe incolte e volti affranti, per silurare un decreto legge adottato da un Governo legittimo e democraticamente eletto, fino al Procuratore di Catanzaro Gratteri che ad ogni pie’ sospinto ribadisce che fu il Presidente della Repubblica Napolitano a non volerlo ministro della Giustizia, lasciandoci ad annegare nel dolore e a macerarci nel dubbio di innominabili connivenze ‘ndranghetistiche al vertice supremo dello Stato, lo spartito è sempre quello.
Ditemi voi in quale altro Paese democratico del mondo sarebbe mai consentito a un magistrato di sparare simili bordate contro un ministro in carica. Egli può aprire una indagine su quel Ministro, o sollecitarla ai suoi colleghi competenti per territorio, se vi sono fatti e circostanze che lo legittimino: ecco tutto quello che un magistrato può fare, e scusate se è poco. Fuori da questi invalicabili limiti, ogni altra iniziativa o esternazione è, semplicemente, fuori dal recinto della legittimità costituzionale.
Noi invece apriamo un dibattito sul merito della vicenda: chi ha ragione, chi ha torto. Addirittura Massimo Giletti, autore non saprei quanto involontario dello scoop, insiste perché ci si indigni del fatto che “un uomo come Di Matteo” sia stato, come dire, prima sedotto e poi abbandonato dal suo ministro più adorato e stimato.
Le amarezze o le malinconie del dott. Nino Di Matteo dovrebbero insomma essere poste al centro di una sorta di lutto nazionale, magari da risolversi con le dimissioni dell’oltraggioso ministro. A volte mi capita di chiedermi – e questa è una di quelle – se sogno o son desto. Lasciatemelo dire dal profondo del cuore, senza voler mancare di rispetto a nessuno: ma chissenefrega! Se la vedano tra di loro. Di Matteo mandi un whatsapp a Bonafede, seppure un po’ tardivo, e gli dia del maleducato: di cos’altro dovremmo discutere?
E dunque, mentre – non credendo più da tempo a Babbo Natale – occorre interrogarsi su cosa possa avere in realtà ispirato questa improvvida sceneggiata, e se magari essa abbia a che fare con alcune recenti delusioni legislative (vedi il giocattolino del processo da remoto, tolto via dal Parlamento sovrano ai suoi frenetici sostenitori, tra i quali Di Matteo, a un passo dalla agognata riduzione a icona del diritto di difesa nel processo penale), sarebbe sciocco e ingeneroso nascondere alcuni motivi di enorme, impagabile soddisfazione.
Il mondo politico, culturale ed editoriale nato, cresciuto e pasciuto parassitando l’antimafia (ah, indimenticabile Sciascia!) per farne un micidiale strumento di formazione del consenso e di conquista crescente di cruciali leve del potere, è in cortocircuito.
Lo schema fino a ora meravigliosamente vincente del mondo in bianco e nero, buoni e cattivi, o con Di Matteo e Gratteri o con mafiosi e ‘ndranghetisti, che ha portato il più improbabile dei movimenti politici a governare il Paese ed un gruppo di giornalisti scrittori ed editori ad accumulare fortune e potere, implode come un sufflè venuto male. Eccovi ripagati della stessa moneta, e da chi? Dall’idolo immalinconito e deluso. Spettacolo strepitoso vale – anche solo per poche ore – qualunque prezzo del biglietto.
Quel Giarrusso, per dire, collegato in trasmissione mentre Di Matteo bombardava placidamente il suo ministro antimafia anticorruzione eccetera, che roteava gli occhi e balbettava frasi insensate non sapendo che pesci prendere e non avendo, d’improvviso, più nessuno a cui dare comodamente del mafioso; e Travaglio, con il suo editoriale interminabile con il quale ci spiega che è tutto un equivoco, si sono capiti male, l’audio non era dei migliori e Giletti è amico di Salvini; beh non so voi, ma io, almeno per qualche ora, ho avuto netta e commovente la sensazione di assistere, per la prima volta nella mia vita, alla prova scientifica della esistenza di Dio.
* (presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane)
(da Il Riformista)