di Rosa Filippini
(da l'Astrolabio giornale on line degli Amici della Terra Italia)
Perché solo i verdi italiani, a differenza dei colleghi europei, non hanno registrato un successo alle elezioni europee nonostante il loro messaggio elettorale abbia coinciso con quattro mesi di piazze colme degli studenti dei Fridays for future e, soprattutto, con la loro celebrazione mediatica?
Gran parte degli osservatori intervenuti sul quotidiano La Repubblica convergono su un giudizio critico sui verdi italiani che sarebbero troppo fondamentalisti, direbbero troppi no, incapaci di quel pragmatismo che consente ai loro colleghi tedeschi di diventare il partito più votato in patria. Dice Manconi, che dei verdi italiani è stato anche portavoce negli anni ’90: “Il tratto saliente dei verdi tedeschi è stato sempre la sagacia politica: la radicalità dell’analisi e gli stili di vita conseguenti non hanno mai fatto velo al realismo politico”.
Angelo Bonelli, attuale coordinatore nazionale dei verdi, difende la sua formazione su questo punto: al partito verde non manca la radicalità dei veti ideologici (No Tav, No Triv, No Tap, no inceneritori) e non mancò il “pragmatismo” di partecipare, negli anni ’90 e 2000, ai governi di centrosinistra lasciando una traccia importante della propria partecipazione nell’adeguamento energetico degli edifici.
In realtà, i provvedimenti di efficienza energetica sono effetto semmai delle campagne come quelle degli Amici della Terra mentre la traccia più evidente delle politiche verdi è invece negli spropositati sussidi a eolico e fotovoltaico a terra che gli italiani pagheranno in bolletta fino al 2030 anche se non hanno prodotto che una trascurabile riduzione (qualche zero virgola) delle emissioni che minacciano il clima a livello globale.
Ma il comportamento dei verdi tedeschi e nordeuropei non è (e non è stato) molto dissimile, solo più funzionale agli interessi dei rispettivi paesi: anch’essi sfoggiano posizioni e stili di vita di intransigente contrarietà alla società dei consumi, ma tollerano, o hanno tollerato negli anni, senza troppi drammi, più di un compromesso sulle scelte fondamentali: un sistema quasi tutto nucleare come quello francese; una produzione elettrica basata per il 40% sul consumo di lignite tratta dalle miniere nazionali a cielo aperto come quella tedesca; un sistema di gestione dei rifiuti basato sull’esportazione come quello inglese; sistemi di controllo del mercato alimentare assai carenti come quelli che appena qualche anno fa consentirono il diffondersi del morbo della mucca pazza come quelli di mezza Europa. Spesso poi, gli impegni di riduzione delle emissioni climalteranti al 2020, (quelli che l’Italia ha già raggiunto al 2017) segnano il passo proprio nei paesi dove i verdi contano di più.
Da questo punto di vista l’analisi potrebbe rovesciarsi: perché nonostante queste defaillances e queste evidenti contraddizioni, i partiti verdi europei mietono consensi elettorali così elevati? Inoltre, se accettiamo che l’essenza della politica ambientalista sia nell’immagine intransigente e nell’agire “sagace” o, per meglio dire, tartufesco, ci accorgiamo che anche l’Italia ha espresso la sua bella quota di quello che passa per “politica verde” e, allo stesso tempo, di tutto quello che passa per “pragmatismo”: una formazione politica, quella dei seguaci di Grillo che, mutuando tutte le parole d’ordine dell’oltranzismo verde, ha avuto successo ben prima dei verdi nel resto d’Europa e che, pur di stare al governo, convive “pragmaticamente” con Salvini.
Dunque cosa dobbiamo sperare? La politica ambientalista è tutta da buttare, in Italia e all’estero? Certo che no, ma forse dobbiamo uscire dall’equivoco che sostituisce l’immagine alla sostanza.
Anzi, occorre sottoporre a verifica l’immagine che l’ideologia verde ama dare di sè e che i decisori e i commentatori (di sinistra e anche di destra) spesso rincorrono, ritenendola vincente, a prescindere dal merito, presso l’opinione pubblica.
Spesso, questa immagine consiste in luoghi comuni, che non hanno alcun senso reale, avvalorati solo dal fatto che nessuno si è mai preso la briga di contestarli apertamente. E’ così per l’acqua pubblica. L’acqua non è mai stata “privata” ma lo slogan fa temere che lo sia o che potrebbe esserlo. Se aggiungiamo il timore di doverla pagare, il gioco è fatto: non si troverà più nessun politico o amministratore disponibile a spiegare che l’acqua è già pubblica ma che, se anche la sua gestione resta in mano ai municipi, non ci saranno mai le risorse da investire in un ciclo integrato, depurazione inclusa, che eviti gli sprechi e le perdite e che salvaguardi la risorsa e la qualità ambientale.
È così per i rifiuti: zero rifiuti è un’affermazione senza senso se non sei un eremita. Ma funziona molto bene per chi voglia rappresentarsi come puro e senza macchia. La realtà è al contrario: il ciclo dei rifiuti è così importante che per gestirlo in modo ambientalmente corretto occorrono grandi infrastrutture industriali, comprese discariche e inceneritori. Chi non è in grado di occuparsene a questo livello, esporta i rifiuti o li lascia nelle strade in balia di topi e gabbiani, come accade a Roma.
È così per la mobilità sostenibile: nessuno vuole nuovi cantieri vicino casa ma garantire a tutti la libertà di muoversi, limitando i danni al suolo e all’atmosfera richiede utilizzare al massimo il trasporto pubblico su ferro. Che c’entra questo con No Tav?
È così anche per il riscaldamento globale: si esaspera un problema in modo isterico ma ci si rifiuta di misurare quali fra gli investimenti possibili siano davvero in grado di ridurre le emissioni nocive al clima globale. Ci si rifiuta di fare i conti con i limiti delle attuali tecnologie dell’accumulo di energia e si pretende di programmare a breve il phase out dei combustibili fossili senza sapere ancora quali siano le alternative.
Se queste fossero le posizioni dei soli partiti verdi, potremmo anche starci. Ma se l’informazione le avvalora acriticamente e il potere le fa proprie, siamo fritti.
Il rischio c’è. Alla vigilia del 2020, la questione ambientale è apparentemente in cima a tutte le agende politiche nazionali e internazionali. In particolare, da quasi 30 anni, i cambiamenti climatici sono oggetto di uno sforzo diplomatico senza precedenti. Conferenze delle parti, summit di capi di Stato, progetti di vincoli alle politiche nazionali e ai sistemi economici come nessun’altra questione di rilievo globale ha mai determinato finora, secondo il copione del massimo allarme (e del minimo impegno effettivo) come se capi di stato e diplomatici fossero gli studenti di Greta e non i massimi responsabili delle politiche e delle strategie da mettere in atto.
I risultati dell’approccio allarmistico sono asfittici. Totalmente inadeguati alle necessità e sproporzionati al prezzo pagato da pochi. Il protagonismo dell’Europa non ha trainato il resto del mondo e nessuno si è posto davvero il problema dell’accesso all’energia nei paesi poveri.
Quello che manca alle politiche ambientali non è una nuova ondata di catastrofismo e nemmeno di “pragmatismo” ambiguo. Piuttosto, è un ambientalismo riformista che va ricostruito in Europa, in Italia, in sede internazionale. Un approccio strategico capace di riprendere, dagli armadi dove è stata relegata, la più felice intuizione del secolo scorso, quella di uno sviluppo sostenibile che non trascuri nessuna delle dimensioni, ambientali, sociali, culturali, indispensabili alla vita sul pianeta e misuri su di esse ogni impegno concreto.
Gli Amici della Terra, che in questi giorni celebrano i propri 40 anni (e più) di vita, non hanno mai abbandonato la strada della responsabilità e del riformismo. Hanno resistito, non intendono mollare il campo e hanno molto da dire in proposito. Interlocutori cercasi.
da l'Astrolabio giornale on line degli Amici della Terra Italia