di Gian Maria Fara* (da Il Dubbio)
Quello della menzogna nel rapporto tra politica e opinione pubblica è un problema annoso e di non facile soluzione poiché ha profonde radici nellacultura del potere, del nostro Paese in particolare.Anzi, ne rappresenta un vero e proprio carattere distintivo e deriva dallo spirito feudale tipico della nostra classe dirigente che continua a considerare come sudditi i cittadini, ai quali vanno trasferiti ordini e disposizioni piuttosto che spiegazioni.
D’altra parte, come la storia ci ricorda, mentre Churchill prometteva realisticamente agli inglesi “sangue, sudore e lacrime”, il nostro Mussolini rassicurava gli italiani col suo “vinceremo”. Questa mentalità è il prodotto della convinzione della superiorità delle élite e della immaturità del popolo che “non sa”, e quindi non sarebbe in grado di valutare correttamente la complessità dei fenomeni e al quale va somministrato un distillato controllato di informazioni, o meglio, di propaganda.
Ma se almeno la propaganda riguardasse azioni, misure, iniziative portate a compimento vi sarebbe poco da ridire. Il problema è che si imbastiscono pervasive campagne di comunicazione su semplici annunci di ipotesi che fanno sembrare reali e realizzate iniziative che appartengono ancora al mondo delle idee, spesso nei fatti impraticabili, disorientando l’opinione pubblica. Naturalmente tutto ciò con la complicità dei mezzi di comunicazione di massa, pronti a cogliere ogni sospiro, ogni più lieve sussurro proveniente dai palazzi del potere, ad amplificarli a dismisura.
Basti osservare i titoli dei telegiornali e dei grandi quotidiani per capire quanto larga sia la distanza tra ciò che viene raccontato e la realtà dei fatti. Titoli e articoli che si rincorrono e si sostituiscono un giorno dopo l’altro: pagheremo meno tasse. Il Governo ha deciso, “contrordine compagni”, non ha deciso. Assistiamo ad una continua sovrarappresentazione del gossip o di fatti minimali e ad una mancanza di approfondimento dei temi di maggiore rilevanza.
Il prodotto finale è una straordinaria confusione, il disorientamento totale di un cittadino al quale la vita viene resa ogni giorno più difficile e complicata.
Altra non irrilevante questione è quella della nuova semantica della politica, proiettata verso il superamento della lingua madre, spesso bistrattata dal politichese e dal burocratese, e rimpiazzata da un inglese che dà un fine tocco di internazionalità e che risulta essere particolarmente apprezzato dai pastori sardi, dai contadini molisani, dai vignaiuoli delle Langhe e dagli allevatori della Bassa Padana.
Finché si trattava del weekend, passi. Ma quando la riduzione delle spese improduttive diventa la spending review, il Ministero del Lavoro si trasforma in quello del Welfare, il Piano per il lavoro si traduce in Jobs act, la scuola e l’Università diventano l’Education, il fallimento lascia il posto al default e via a seguire, con outsourcing, governance, election day, fiscal compact, flat tax, rating, credit crunch, low cost, social card, blind trust, la vicenda comincia ad assumere connotazioni inquietanti.
L’inglese ha ormai invaso la nostra vita quotidiana, e il suo utilizzo segna la separazione tra le diverse Italie. Ciascuno di noi, in base alla propria esperienza, vocazione, professione e proiezione, è libero di farne l’uso che vuole, anche di accettare e praticare la progressiva sostituzione con la lingua madre.
Tuttavia, le Istituzioni hanno il dovere di rendersi comprensibili e chiare a tutti i cittadini, soprattutto in un Paese come il nostro che non è mai riuscito a superare i mille dialetti e ad affermare il primato dell’italiano e combatte ancora con sacche vastissime di analfabetismo e analfabetismo di ritorno, come ci ricordava spesso Tullio De Mauro. Si tratta allora di stabilire se l’idea è quella di gettare alle ortiche la nostra lingua, considerata quantomeno superata, o di rendere ancora più incomprensibile ai più, con neologismi e paroloni, ciò che è meglio che non si capisca.
Sembra proprio che avesse ragione Paul Valéry quando diceva che la politica è l’arte di impedire alla gente di occuparsi di ciò che la riguarda. Altra caratteristica della prassi politica recente è quella della abolizione della coniugazione dei verbi al passato e al presente, e l’esaltazione di quelli al futuro: dovremo, faremo, costruiremo, risaneremo e via dicendo. La soluzione dei problemi, per quanto gravi e urgenti, viene sempre rinviata al futuro, mai una decisione o una norma che intervengano puntualmente sul presente.
I debiti della Pubblica amministrazione saranno liquidati, le tasse saranno ridotte, la giustizia sarà riformata; nel frattempo, gli italiani sono costretti a condurre la loro difficile lotta quotidiana per la sopravvivenza, e si sentono doppiamente colpiti dalla realtà, che sembra immodificabile e dalle promesse che, si sa, non saranno mantenute.
Tzu- Kung chiese chi fosse un vero gentiluomo. Il Maestro rispose: «Colui che non predica quello che fa finché non ha fatto quello che predica». È evidente, se si vuol dar credito all’insegnamento di Confucio, che nel nostro Paese i gentiluomini, se ci sono, sono davvero pochi.
* Presidente Eurispes
(da Il Dubbio)