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16/11/24 ore

La retorica di Matteo Renzi



 di Christian Raimo (da ilpost.it)

 

Nelle ultime settimane Matteo Renzi è stato sempre al centro del dibattito pubblico: il viaggio in America, Marchionne, i Clinton, l’inglese strampalato, l’intervista da Fazio, il bailamme sull’articolo 18, lo sberleffo dei sindacati, la direzione PD, la polemica con la minoranza, le critiche da parte di Corriere e Repubblica, etc… 

 

Anche chi non fosse interessato alle questioni del Partito Democratico o agli affari del governo quando entrano nell’occhio di bue, non può evitare di incrociare un affondo di Renzi, una sua dichiarazione, un intervento – che sia all’Onu o allo stadio, un tweet o un’interpellanza. È una forma di ubiquità che vuole significare attenzione, presenza; un dinamismo in perenne accelerazione che è il segno di una condizione di permanente attualità.

 

Stare sempre sul pezzo, questo è il diktat. Davanti a questa pervasività comunicativa, il contenuto di quello che afferma Renzi perde di rilievo. Ci si può irritare per la sciatteria anti-istituzionale con cui liquida i sindacati, la superficialità con cui affronta il tema dell’articolo 18, o anche della cafonaggine dell’usare un inglese fantozziano rivendicandoselo. Ma si perde il senso del discorso di Renzi che è strutturalmente altro, e per questo spiazzante – sempre spiazzante – rispetto a quello che è il resto della comunicazione politica; se pensiamo a quella dei suoi compagni di partito ma anche da quella berlusconiana o grillina.

 

Ma cos’ha di diverso, di specifico, la retorica renziana? Partiamo dai dati quantitativi. Guardatevi l’intervento di Bersani o di D’Alema (impresentabile, spocchioso, lamentoso il primo; sarcastico il secondo) alla direzione del Pd, e confrontatelo con l’intervento iniziale di Renzi. Quale è la differenza sostanziale che non ci mette molto a saltare all’occhio? Perché Bersani sembra imballato, a ralenti, e Renzi un disco da 33 fatto girare a 45?

 

Si tratta della quantità di parole per unità di tempo: Renzi pronuncia il doppio se non il triplo delle parole di Bersani. Ascoltare Bersani per chi ha meno di quarant’anni dà la sensazione di prendere un ascensore che si ferma trenta secondi ogni piano. Renzi invece fa mai pause. È assolutamente metadiscorsivo, prefigura – attraverso parentesi, prolessi e analessi – il discorso che sta per fare; discorso che spesso non ha niente di sorprendente, ma viene talmente caricato di attesa e di enfasi che pare sempre di essere un punto di approdo definitivo, risolutorio, di un ragionamento. Non lascia mai spazio a una possibile riflessione su quello che sta dicendo.

 

Si potrebbe dire che riempie, o meglio satura, lo spazio sonoro. Senza il martellamento di Berlusconi o di Grillo o dei loro cloni; ma con una fluidità che è soprattutto ritmica, fatta di un andamento dattilico. L’unico che riesce a competere da un punto di vista della velocità (numero parole per minuto) è Giuseppe Civati – qui il suo intervento. Ma le differenze tra i due stili retorici sono evidenti (Civati è cartesiano, spesso icastico, impone una lucidità e un’analisi di secondo passo dove c’è una confusione comunicativa) e mettono in luce per contrasto un’altra caratteristica di quella che viene definita genericamente “parlantina” del premier: le sue accelerazioni.

 

Qualunque discorso che Renzi fa non è solo veloce, ma è accelerato. Parte piano e si infervora. Alza i toni, si scalda. Il video dell’ospitata a Che tempo che fa è esemplare: anche quando Fazio pone delle domande molto piane, Renzi comincia quieto, e in pochi secondi è già su di giri, poi non scala mai le marce al contrario. E che cos’è che va a pronunciare nel cuore dell’enfasi? Quando sembra arrivare al clou della sua argomentazione, che in realtà non è mai consequenziale, sintattica, ma sempre associativa, Renzi afferma con tono apodittico una qualche banalità. Una cosa del tipo: «C’è tanta voglia di Italia nel mondo», «Bisogna restituire la fiducia agli italiani», «la scuola è importante», cita un esempio sul quale non si può che essere d’accordo: «Io sono di quella donna che non ha la maternità», «io sto con quell’anziano che guadagna poche centinaia di euro di pensione sociale».

 

Il suo populismo è sempre identificativo. Sfrutta in modo sistematico questa ideologia del mondo contemporaneo: la cultura feticistica dell’immedesimazione. Come dichiara nell’intervista a Fazio, i problemi di chiunque sono i problemi di Renzi. Il senso della sua politica si basa su una forma di illusione molto efficace: prendersi cura degli altri vuol dire caricarsi addosso i loro problemi, afferma Renzi. E l’espressione con cui la dice vuole mostrare una reale identificazione empatica con qualunque cittadino tirato in ballo. Ma non è solo questo “effetto di vicinanza” che genera un senso di confidenza e di immedesimazione immediata, al di là delle ragioni. È un processo che non ha la perversa polimorficità di uno Zelig, ma quella fenomenologia dell’uomo comune che Umberto Eco attribuiva a Mike Buongiorno.

 

 

Renzi non sale mai in cattedra, non è mai premier. Persino all’Onu, toppando clamorosamente la pronuncia dell’inglese e non vergognandosene, dichiara implicitamente: Sono come voi. Immaginatevi in una situazione ufficiale, ecco io mi carico le vostre ansie da prestazione e le risolvo così, rovesciando il canone, eliminando il vostro incubo emotivo maggiore: l’ansia da prestazione.

 

Ma non è solo un’attitudine all’indentificazione che rende convincente l’oratoria di un discorso che, se fosse letto, troveremo trito e ritrito, un cumulo di luoghi comuni (fateci caso a quanto poco Renzi scriva in una forma più lunga di un tweet o un post, e di come invece parli tantissimo; oppure leggete i suoi libri e saggiate la debolezza argomentativa e stilistica e la povertà dell’analisi e dell’invenzione).

 

Come fa dunque a essere funzionale un discorso così banale?...

 

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