di Michele Ainis
(dal corriere.it)
Le Costituzioni invecchiano, come le persone. Però, a differenza di noialtri, possono ringiovanire, bevendo un elisir di lunga vita. È a questo che serve ogni riforma, a proiettare nell’attualità un testo figlio dell’aldilà, di un’altra stagione della storia, affinché continui a rispecchiare lo spirito del tempo.
E che faccia ha il nostro spiritello? Quella di chi va di fretta, sicché detesta le lungaggini della democrazia parlamentare, tanto più se rallentata da due Camere gemelle. Dunque la revisione del Senato gli strapperà un sorriso, come del resto il rafforzamento del governo, liberato dal ricatto della doppia fiducia. Qui e oggi, il nostro umore collettivo esige decisioni rapide, governi stabili, politici senza privilegi. Di conseguenza l’indennità zero per i nuovi senatori offre un’altra occasione per sorridere: e tre.
Ma questo spiritello ha anche voglia di passare dall’altro lato dello specchio: vuole decidere, oltre che guardare. Da qui la crisi delle assemblee parlamentari, che peraltro è un fenomeno mondiale, non solo italiano. Negli Usa Benjamin Barber propone di rimpiazzarle con i sindaci, la Primavera araba le ha sostituite con le piazze, in Europa il ritiro della delega s’esprime con la diserzione dalle urne e con la domanda di democrazia diretta.
Ecco perché ovunque si moltiplicano le consultazioni online dei cittadini, sugli argomenti più svariati. Ed ecco perché i referendum sono in auge dappertutto: fino al 1900 ne vennero celebrati 71; nel mezzo secolo successivo se ne aggiunsero altri 197; ma nel mondo si sono tenuti 531 referendum dal 1951 al 1993, e ormai sono innumerevoli, non basta il pallottoliere per contarli.
Su questo versante, tuttavia, la riforma nega un’iniezione di gioventù alla nostra Carta. Anzi: le dipinge in viso un’altra ruga. Sta di fatto che gli unici due strumenti introdotti dai costituenti furono le leggi popolari e il referendum abrogativo. Sennonché le prime si sono rivelate altrettante suppliche al sovrano, che non le ha mai degnate d’uno sguardo; il secondo è stato generato con 22 anni di ritardo, senza mai diventare adulto.
Avremmo potuto attenderci qualche correzione nel progetto del governo: macché, silenzio tombale. Poi ha parlato la commissione Affari costituzionali del Senato, e avrebbe fatto meglio a stare zitta. Perché ha quintuplicato le firme necessarie sulle leggi popolari (250 mila), in cambio di un occhio di riguardo. Ma è un occhio finto: quelle leggi verranno esaminate «nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari». E senza la possibilità di trasformarle in referendum propositivi ove le Camere restino silenti, come suggerì a suo tempo la commissione dei 35 esperti insediata dal governo Letta.
E il referendum abrogativo? In pratica, abrogato. Scende di qualche gradino il quorum, però anche in questo caso salgono le sottoscrizioni: da 500 mila a 800 mila. Mica poco, se esercitiamo per esempio la memoria sull’insuccesso dei 12 referendum radicali, depositati l’anno scorso in Cassazione; il migliore (quello sulla responsabilità civile dei giudici) si è arrestato a 421 mila firme, eppure li aveva sottoscritti tutti e 12 pure Berlusconi. Significa che già adesso, per allestire un referendum, serve un movimento organizzato e ben determinato.
Significa perciò che da domani il referendum sarà un’arma a disposizione dei partiti, non dei cittadini. Degli eletti, non degli elettori...
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