di Massimo Franco
(Corriere della Sera)
Ammettere la testimonianza di Giorgio Napolitano nel processo sulla trattativa Stato-mafia da parte della Corte d’assise di Palermo sarà pure «pertinente», come ha affermato ieri uno dei sostituti procuratori. Ma non può non lasciare un sottofondo di stupore e di perplessità. Gli stessi magistrati si rendono conto dell’enormità della loro mossa
E infatti, per giustificarla riconoscono limiti rigidi e ampi che toccano le funzioni del presidente della Repubblica e le esigenze di riservatezza legate al suo ruolo. Il rischio, tuttavia, è che il capo dello Stato appaia oggetto di un ulteriore strattone da parte di alcuni settori del potere giudiziario immersi da tempo in conflitti interni; e decisi a riaffermare la propria identità a costo di scaricarne gli effetti su un Quirinale che sta tentando una stabilizzazione anche nella magistratura.
È sacrosanto chiedere a tutti informazioni che possano contribuire a trovare la verità. Ma in questo caso non si può non valutare anche una questione di opportunità; e chiedersi se non sia foriero di pericolosi equivoci gettare ombre sul presidente della Repubblica, citandolo come testimone delle preoccupazioni di un suo collaboratore scomparso. In una fase in cui a livello internazionale Napolitano viene considerato uno dei pochi ancoraggi di un’Italia condannata a galleggiare nell’incertezza, la vicenda assume contorni lievemente surreali.
Dietro un aggettivo come «inusuale», utilizzato ieri dalla Guardasigilli, Annamaria Cancellieri, si indovina l’imbarazzo per una sentenza che accoglie e insieme schiva le decisioni della Corte costituzionale. Si tratta del verdetto col quale a gennaio la Consulta stabilì la distruzione delle intercettazioni telefoniche tra il Quirinale e l’ex ministro Nicola Mancino, ritenendole inammissibili. Non solo...
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