di Marco Valerio Lo Prete
(da Il Foglio)
Fino a quando la democrazia italiana potrà ritenersi di “qualità”, in presenza di una giustizia sempre più “inefficiente”, oltremodo “politicizzata”, perennemente disposta a reclamare “indipendenza” ma che non assicura nemmeno controlli al suo interno?
La domanda, così formulata, non è posta dall’ultimo dei circoli del Pdl, né da qualche scheggia impazzita del movimento libertario, ma emerge da un pensoso saggio appena pubblicato dal Mulino, “La qualità della democrazia in Italia”, frutto di “un lungo percorso di ricerca scientifica” coordinato da Leonardo Morlino (ordinario di Scienza politica alla Luiss e past president della International political science association), Daniela Piana (professore di Scienza politica all’Università di Bologna) e Francesco Raniolo (ordinario di Scienza politica all’Università della Calabria).
Gli studiosi s’interrogano su uno dei temi più innovativi e affascinanti della ricerca politologica, la misurazione (anche quantitativa) della “qualità” delle nostre democrazie, considerando per “democrazia di qualità” quell’“assetto istituzionale stabile che attraverso istituzioni e meccanismi correttamente funzionanti realizza libertà ed eguaglianza dei cittadini”. Il “case study” è l’Italia dal 1992 al 2012, dunque non può mancare un capitolo dedicato alla magistratura.
Il saggio della professoressa Piana, scritto in linguaggio scientifico ma quanto mai esplicito, prende le mosse da “un apparente paradosso” dell’ordinamento giudiziario italiano: da una parte abbiamo “un sistema di governo della magistratura che ne massimizza così tanto le garanzie di indipendenza da essere considerato un modello di qualità”, dall’altra lo stesso ordinamento giudiziario “presenta livelli di efficienza e fiducia non in linea con gli standard internazionali di rule of law”.
Meglio rileggere: “Non in linea con gli standard internazionali di rule of law”, dove “rule of law” è il sinonimo anglosassone di quello che chiamiamo “stato di diritto”. Infatti “sul piano oggettivo le evidenze di cui disponiamo segnalano due problemi reali, il primo relativo alla lentezza dei processi e il secondo relativo alla fiducia comparativamente bassa (rispetto all’area Ocse) dei cittadini”.
L’autrice passa poi a elencare una messe di dati, tra cui quelli della Inter-American Development Bank, elaborati assieme all’Onu, che segnalano “una inflessione della indipendenza della magistratura dal 2002 al 2010 (dal 4,50 al 3,10)” e “una diminuzione della efficienza del sistema giuridico in particolare a partire dal 2006 (da 4,20 a 2,50)”.
Al netto della retorica, quindi, centrodestra e centrosinistra pari sono: chiunque sia al governo, la performance dei tribunali peggiora. Il nostro resta “l’ultimo dei paesi Ocse per capacità di esecuzione dei contratti con uno scarto di 158 a 1 con il primo della graduatoria, il Lussemburgo”.
Se non credete ai sondaggi, è il ragionamento della politologa di Bologna, allora guardate le “sentenze della Corte di giustizia per i diritti dell’uomo che stabiliscono l’esistenza di una violazione commessa dallo stato italiano contro il diritto a un giusto processo”. Il nostro primato in quanto a condanne ricevute dalla giustizia europea (non solo comunitaria) è indiscusso, i Radicali per primi non si stancano di ripeterlo.
Il problema non sono i politici, e nemmeno i fondi a disposizione – questa la parte più originale del saggio – ma l’atteggiamento stesso dei giudici, caratterizzato da un mix di impunità, mediatizzazione estrema e politicizzazione senza simili nel mondo occidentale...
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