di Federica Cedro (da Affari Internazionali)
Il XVIII Congresso del Partito comunista cinese ha aperto un nuovo capitolo nella storia della Repubblica popolare cinese (Rpc): dopo la transizione economica avviata da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta si assiste oggi ad una mutazione dell’intero impianto politico cinese. Vera transizione o rivisitazione della vecchia guardia?
Xi Jinping, designato nuovo segretario del Partito e futuro presidente della Rpc, è il nuovo volto del paese: uomo apparentemente austero ma dotato di un’aura di mistero che non lascia trapelare indiscrezioni sul futuro del gigante asiatico. Figlio della generazione maoista, Xi dovrebbe rappresentare una chiave di volta nella politica cinese, come naturale portatore di quella mutazione intra-sistemica avvenuta col passaggio della Cina maoista a quella post-denghista. Ma ad insospettire gli analisti occidentali non è tanto il nuovo leader quanto le dinamiche sottese alla transizione.
Ombre cinesi
Al centro del dibattito in corso aleggia una figura quasi mitologica: Jiang Zemin. Chi pensava che l’ex presidente fosse ormai lontano dalle stanze del potere si sbagliava. Il famoso tecnocrate è infatti riuscito a condizionare profondamente la classe dirigente uscente, facendo leva sulle contrapposizioni interne per estromettere di fatto l’uscente presidente Hu Jintao.
Lasciando nelle mani di Xi Jinping la presidenza della Commissione militare centrale (Cmc), il presidente Hu ha posto fine alla sua permanenza politica nel gruppo dirigente favorendo i fedelissimi del presidente Jiang Zemin, di cui Xi è la massima espressione. La cessione della presidenza del più importante organo istituzionale cinese non fa che confermare le preoccupazione di coloro che da tempo paventano la predominanza dell’apparato militare su quello politico…
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