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18/11/24 ore

Referendum: per salvare la magistratura da se stessa. Conversazione di Otello Lupacchini con Giuseppe Rippa



I referendum sulla Giustizia, che si voteranno il 12 giugno e il cui rilevante, costituzionale appuntamento, è stato sottratto alla conoscenza della quasi totalità dei cittadini grazie a una scientifica disinformazione dai caratteri antidemocratici e di regime, mirano in primo luogo a restituire alla magistratura, pilastro delle garanzie democratiche, il suo ruolo di ordine super partes di cui lo stato democratico ha assoluto bisogno.

 

La magistratura deve prendere atto della questione morale al suo interno. Quello che si è determinato è un circuito di potere chiuso in se stesso che ha finito per diventare una oligarchia autoreferenziale che sta corrodendo il suo insostituibile ruolo e la stessa praticabilità democratica del Paese. L’ex procuratore generale emerito Otello Lupacchini analizza, conversando con il direttore di Quaderni Radicali e Agenzia Radicale Giuseppe Rippa, la parabola storica della magistratura negli ultimi decenni…

 

 

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Giuseppe Rippa Sovente è stato osservato che, fra i magistrati, si è formata un’avanguardia di natura “politica” prodotto della cessione di sovranità da parte della classe politica, con tutti gli aspetti che sono stati indagati: dall’aumento dell’area di discrezionalità dei pm allo scoperto esercizio di un ruolo politico. Oggi ci troviamo nella situazione per cui questo stato di cose ha prodotto una crisi profonda della magistratura, tanto da pregiudicarne il ruolo essenziale di pilastro dello Stato democratico: lo stesso Capo dello Stato non esita a manifestare preoccupazione per la perdita di fiducia dei cittadini e ritiene indispensabile ed urgente un cambiamento. Eppure non si registra una presa di posizione forte. Qual è la sua opinione al riguardo?

 

Otello Lupacchini - Il problema, secondo me, va posto in termini alquanto diversi. Qui siamo di fronte alla crisi dello Stato di diritto, di cui la crisi della magistratura è una conseguenza. Sono, infatti, saltati i meccanismi istituzionali per il corretto esplicarsi della separazione dei poteri che è il fondamento dello Stato di diritto. Per effetto della crisi agonica della “guerra fredda”, con relativi colpi di coda, e dell’adozione da parte della magistratura di una funzione – oserei dire – salvifica, sfociata alla fine nell’inchiesta di Mani pulite, di fronte alle degenerazioni partitocratiche, che misero a dura prova le prerogative del popolo sovrano. 

 

Tuttavia, la crisi era iniziata ancor prima, quando cioè, a partire dalla metà degli anni ’70 del Novecento, si era manifestata l’incapacità decisionale, nella quale era caduto il potere politico, aggravatasi quindi con le deleghe di prerogative politiche alla magistratura: per effetto del terrorismo e in funzione della lotta contro di esso, progressivamente alla politica criminale si sostituì la politica penale, prima, e la politica penale dell’ordine pubblico poi, con aumento spropositato della discrezionaità dei magistrati. Con la vicenda Moro, abbiamo assistito alla dissoluzione di fatto del rapporto fiduciario tra il popolo e la politica e – conseguentemente – al venir meno di quella che era la situazione latente e che con Mani pulite trova la sua massima esplicazione, quando si tratta di rinnovare una classe politica e purtroppo un costume che si era venuto a realizzare durante la guerra fredda, perché aveva giustificato una serie di abusi da parte della politica, trasformando quelli che erano meccanismi interni di bilanciamento tra i poteri in prerogative – almeno apparentemente – odiose da parte della politica medesima.

 

Io ricorderei, in proposito, sia il discorso di Moro, in occasione  dello scandalo Lockeed, in difesa della Democrazia Cristiana e dell’assetto di potere che si era determinato all’epoca, sia il discorso di Craxi con il quale il leader socialista denunciava una situazione che, probabilmente, non era più accettabile una volta finita la guerra fredda, ma che aveva trovato precedentemente una giustificazione proprio in essa, quando i partiti erano stati in qualche modo chiamati a gestire una parte di questo rapporto bellico tra Est e Ovest. In quei due discorsi vediamo configurarsi i temi della crisi che oggi si sta vivendo. 

 

G.R. - Questa ricostruzione storica è decisamente convincente, perché inquadra anche i passaggi di quello che è stato l’ordine mondiale determinatosi nel secondo dopoguerra. Siamo più volte ritornati sul fatto che proprio l’assenza di un nuovo ordine mondiale è a monte delle crisi che stiamo ora vivendo (e l’invasione russa dell’Ucraina ne è una testimonianza). Dagli storici è stato chiarito come con la caduta dell’Impero Austro-ungarico abbiamo avuto la prima crisi dell’ordine mondiale, allora governato essenzialmente a livello dell’Europa continentale. Dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo poi avuto l’ordine mondiale costruito su quello che è stato definito il “bipolarismo coatto” delle superpotenze atomiche USA e URSS. 

 

Con la caduta del Muro di Berlino manca una definizione di un nuovo ordine: le ripercussioni, in un Paese come l’Italia dove c’è stata un’opposizione di matrice comunista legata alla Unione Sovietica, si sono riverberate in tutti i soggetti dello Stato italiano determinando quella che chiamo la “società delle conseguenze”. È la società che si è formata perché sono mancati tutti i luoghi e le occasioni per un’azione riformatrice, dal momento che la stabilizzazione era garantita solo all’interno di quella scenografia che poco conteneva in sé i caratteri dello Stato di diritto. 

 

Alla luce della tua lunga e importante esperienza di magistrato vorrei adesso conoscere il suo pensiero, nel conforto dello scenario storico-politico che ha appena descritto, circa la situazione determinatasi nella magistratura dopo i fatti recenti che hanno fatto esplodere, agli occhi dell’opinione pubblica, la crisi profonda che l’attraversa e che è stata tuttavia silenziata. Si è fortemente indebolito il sentimento popolare di fiducia verso la magistratura, dopo che se ne è percepita la crisi di legittimazione all’interno della più generale crisi delle istituzioni, ma nonostante ciò vi è la sensazione che la magistratura, nel suo insieme, stenta a dimostrare una volontà di agire nel senso di un cambiamento.

 

L’unico atteggiamento sembra essere quello di stare silenti di fronte alla crisi stessa, quasi la si volesse negare, e di non esprimere un impegno, una volontà e un’intenzione a riguadagnare un approccio che faccia di questo ordine super partes – e che non è più tale – il riferimento della speranza dei cittadini nella realizzazione della giustizia. Sarebbe un segmento importante per guadagnare se non altro l’approdo a una traiettoria verso quello Stato di diritto, ora completamente compromesso o addirittura assente. Come giudica, dunque, questo atteggiamento sfuggente dei magistrati? La magistratura ha la consapevolezza che il danno riguarda tutto lo Stato democratico nel suo insieme? Quali sono le cause di questo comportamento: si deve a una tentazione tutta corporativa o all’intenzione di non rinunciare al potere acquisito?

 

O.L. - Ritengo ci siano entrambi e anche qualcos’altro. La mia personale esperienza ha attraversato oltre quarant’anni di storia d’Italia e della storia della magistratura italiana. Quando entrai in magistratura, il terrorismo si andava progressivamente incattivendo e il problema si poneva in termini molto meno penetranti e pregnanti di oggi. Vi erano le correnti allora come oggi nella magistratura, ma c’era anche una spinta ideale alla terzietà e all’imparzialità, nonché allo svolgimento di un ruolo volto a equilibrare il sistema: controllo e vigilanza sul rispetto delle leggi. Che ci fossero situazioni poco commendevoli o persino dei farabutti in toga e tocco, questo non riguardava l’intera magistratura ma poteva riguardare solo alcuni personaggi che svolgevano il loro ruolo in maniera incongrua.

 

Per quanto concerne quel periodo, il mio pensiero va sempre a due figure che ritengo estremamente importanti, almeno per quanto riguarda la mia formazione, e cioè: Emilio Alessandrini e Guido Galli. Figure importanti perché incarnavano un certo modo di sentire l’investitura giudiziaria, un certo modo di fare giustizia, un certo modo di sentirsi magistrati. Per il loro essere entrambi – usando un termine oggi purtroppo snaturato dall’abuso – garantisti, furono fatti oggetto di aggressione terrorista e uccisi. Così come, nell’ambito del diritto del lavoro, la violenza terroristica si è scatenata nei confronti dei cosiddetti “riformisti”, di coloro, cioè, che puntavano ad un trattamento del lavoro adeguato al rilievo fondamentale riconosciuto al lavoro stesso dalla Costituzione. 

 

Col tempo mi sono poi accorto, però, che qualcosa stava profondamente cambiando. Innanzi tutto, come dicevo prima, la funzione riconosciuta alla magistratura di “punta di diamante” nella cosiddetta lotta al terrorismo, con rigurgiti di inquisizione: il processo iniziava prepotentemente a essere visto non più come strumento gnoseologico, ma come momento “bellico” di frontale contrapposizione a una criminalità, rappresentata sempre più aggressiva; e la legalità ridotta sempre più a elemento di facciata, laddove la torsione delle regole – quindi l’illegalità – finiva con l’essere giustificata in una sorta di “stato di necessità”. Tornava, insomma, d’attualità la domanda  già posta temporibus illis dai dai giuristi in età barocca, se fosse lecito violare le norme penali e le norme processuali di fronte a crimini orribili. Di fatto si andarono formando due scuole di pensiero, entrambi mistificanti l’illegalismo: una limitatamente alle norme di carattere poliziesco; l’altra alle norme di carattere sia penale e sia processuale.

 

Con il tramonto del terrorismo si è venuta a verificare una situazione di questo genere. Ricordo che negli anni ’60, quando io ricevevo la mia formazione universitaria, si discuteva se fosse compatibile  con la riserva di legge prevista dalla Costituzione in materia penale, con forme di normazione diverse dalla legge in senso formale, quali il decreto legge e il decreto legislativo. Problema serio e delicato: la legge in senso formale, nello spirito della Costituzione, trova la sua giustificazione nel fatto che la Legge viene adottata in Parlamento, all’esito di un dibattito fra tutte le forze rappresentate e quindi garantisce maggiormente le minoranze. 

 

Si è poi passati, con il tempo, non solo ad ammettere come fonte del diritto penale il decreto legge e il decreto legislativo, ma addirittura l’eliminazione dello stesso dibattito parlamentare, visto che molto spesso i termini iugulatori entro i quali il decreto legge dev’essere convertito, pena la decadenza, comportano che discussione non ce ne sia, perché quello che viene alla fine approvato sia spesso un maxi-emendamento alla proposta governativa, votato con la fiducia. Quindi con lo strangolamento totale del dibattito e il conseguente venir meno della tutela per le minoranze. 

 

Tutto questo ha finito per incidere sui comportamenti della magistratura che, per effetto del venir meno dell’immunità parlamentare e dell’eliminazione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere – che magari era diventato un privilegio odioso per come era stata usata – ma che comunque trovava la sua funzione nel limitare le invasioni di campo, ha acquisito infine un ruolo improprio dopo che la sua discrezionalità è stata poi aumentata per effetto di leggi sempre meno tassative. Fenomeni tutti che hanno conseguentemente portato ad un mutamento antropologico della magistratura: quello che, durante il terrorismo e la cosiddetta lotta al terrorismo, era indotto dallo stato di necessità, diventa in seguito un vero e proprio habitus mentale dei magistrati che si sentono sempre più custodi della virtù anziché custodi della Legge, per cui la legalità si risolve nel rispettare il volere del magistrato.

 

Si sono poi aggiunte delle forme di regolazione dei rapporti interni alla magistratura e del rapporto tra essa e gli altri poteri: basta vedere la riforma dell’ordinamento giudiziario attuata dai ministri Castelli prima e Mastella poi, che ha completato il processo e – attraverso una serie di decreti legislativi – di fatto ha finito per produrre un’intollerabile burocratizzazione degli uffici requirenti. 

 

Una volta, all’interno della magistratura esisteva un pluralismo: il capo dell’ufficio organizzava gli uffici sotto il profilo puramente amministrativo, certo potendo anche decidere dell’esercizio del potere ma in maniera surrettizia e strumentale. Oggi, di fatto, questi poteri sono tutti in capo al Procuratore della Repubblica che può dettare i tempi delle inchieste, può dettare la priorità degli interessi che debbono essere tutelati, per cui l’azione penale obbligatoria diventa un’azione discrezionale affidata alla sensibilità del Capo e tutto il resto – i tempi, le modalità e qualsiasi misura vada adottata – dipende sempre dal vertice della procura. 

 

La mancata percezione di questo grave fenomeno da parte della magistratura va ricondotta anche alla condiscendenza con la quale si è tollerata, da parte ad esempio dei pubblici ministeri, la creazione all’interno del corpo dei PM di un’aristocrazia togata rappresentata dai capi degli Uffici, che però – se andiamo a scavare grattando la crosta retorica che c’è sopra – significa una cosa sola: l’azione penale è solo nominalmente obbligatoria, ma di fatto è arbitraria e la gestione delle attività processuali (le recenti vicende milanesi ne sono un esempio eclatante), una volta eliminata questa crosta di retorica, comporta che controllando appena 50-60 capi di ufficio (distribuiti tra procuratori della Repubblica e dell’anti-mafia) si finisce per controllare qualcosa come duemila magistrati. 

 

In assenza poi di controlli interni di qualsiasi tipo, per cui il problema a questo punto è: chi controlla questa aristocrazia togata, all’interno degli uffici del Pubblico ministero? A chi è affidato il potere di condizionare l’operato di queste 50-60 persone e non più duemila quando, quanto meno, c’era la possibilità di esprimere le proprie idee e condivisioni in un rapporto paritario? Questo è stato accettato tranquillamente: non ho visto scioperi, tensioni o proteste per l’adozione di questi criteri, che sono criteri non meramente organizzativi ma di dislocamento del potere dai magistrati, che si distinguono solo per una distinzione di funzioni, a un corpo scelto di magistrati in cui qualche esponente, da capo dell’ufficio, vede alla stregua di flebotomi o di infermieri i propri sostituti.

 

Questo per dire come viene oggi interpretata la gestione concreta del lavoro in procura. È chiaro che quando si hanno mutamenti antropologici di questo tipo, la concentrazione di potere in poche mani, la possibilità di controllare coloro in mano ai quali questi poteri sono concentrati, a scapito della grande maggioranza di chi formalmente li esercita, evidentemente è difficile vedere una reazione di fronte a un quesito referendario che cerca di colpire uno dei nodi essenziali di questa situazione, che probabilmente va bene a tutti. Va bene alla politica, che ha formulato le norme; va bene a quell’aristocrazia togata che si ritrova in mano tutto il potere; va bene a chi fa parte delle procure della Repubblica, che si sente in qualche misura de-responsabilizzato o sgravato di compiti decisionali, che comportano comunque un impegno personale molto alto. 

 

G.R. - Questa ricostruzione estremamente puntuale sulla trasformazione antropologica dei magistrati, con le conseguenze gravi di deterioramento della funzione di “ordine” per diventare una parte integrante della lotta tra poteri e per il potere, mi spinge a sollecitarla in conclusione a dire la sua opinione sui produttori legislativi. Oramai con il Parlamento depotenziato per i motivi appena descritti (decretazione d’urgenza, obbligatorietà delle scelte operate in sede governativa senza adeguato dibattito e confronto…), c’è da chiedersi quanti sono i produttori legislativi. Nei ministeri i consiglieri e direttori sono quasi tutti magistrati, fanno parte di questi soggetti consegnati a questa vera e propria parabola antropologica che ha mirabilmente descritto, dai caratteri decisamente poco attendibili sul piano dell’efficacia ma anche della definizione di quello che lo Stato di diritto dovrebbe realizzare: un governo dei conflitti, dentro un soggetto garante che in quanto super partes va ad assumere un ruolo determinante nella loro soluzione tra cittadini e tra cittadini ed istituzioni.

 

O.L. - Torniamo sempre al problema di fondo. È vero che sono le burocrazie che determinano quelle che poi sono le scelte strategiche, che la politica non fa più. Scelte strategiche – questo è il grande dramma – che soprattutto determinano le tattiche che, in qualche misura, portano le strategie dislocate appunto sulla burocrazia a realizzarsi. Che siano magistrati o servitori del diritto, giuristi o servitori del Principe, in realtà cambia poco: quello che conta è che le burocrazie hanno assunto un potere predominante. Che ci siano magistrati o altri funzionari a farne parte ha poca importanza, quel che conta sta nel fatto che è in quella sede che sono dislocate le scelte strategiche. Quindi non più il Parlamento come luogo di sintesi politica, bensì le burocrazie come luogo di elaborazione e imposizione autoritaria di strategie che finiscono per vincolare tutti. 

 

È chiaro che, se la burocrazia è inzeppata di magistrati, questi si attiveranno con grande alacrità a quelli che sono gli interessi di fondo della corporazione dalla quale provengono. Che poi non si amino e siano poco intelligenti, perché fortunatamente al potere enorme finisce per coniugarsi più volte un’intelligenza esigua, ciò può anche portare a una eterogenesi dei fini. Ma non si può vivere nella speranza che qualcuno sbagli nell’esercitare un compito che non avrebbe dovuto essergli delegato. Quando si dice: basterebbero sette od otto persone per costituire un’assemblea parlamentare, perché tanto gli altri sono solo un parco buoi che vota quello che i sette-otto decidono, in sostanza si dice una mezza verità ma si dice anche una mezza bugia. Spesso non sono neanche sette-otto a decidere, ma la decisione viene presa in altro luogo e in altra sede. 

 

E tutto questo perché? Perché sostanzialmente è venuta meno la Stella Polare dell’esercizio equilibrato e separato dei poteri. Qualcuno rivendica la propria autonomia o la propria indipendenza; altri hanno messo quella vis propria del potere, di ciascun potere, nelle mani di qualcun altro. In questa situazione, evidentemente poi non ci si può lamentare se il popolo lento, ignorante, male informato lascia campo libero alle burocrazie. In sostanza, perché alle burocrazie è consentito tutto? Perché manca totalmente il controllo da parte dell’opinione pubblica. Se l’opinione pubblica non viene informata o all’opinione pubblica fanno vedere le cose in funzione delle strategie che si vogliono determinare, queste burocrazie avranno spazio e campo libero quanto vogliono, perché di fatto nessuno uscirà dalla narcosi per effetto di visioni nitide. 

 

Con la collaborazione di Luigi O. Rintallo

 

 


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