Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

17/11/24 ore

In ricordo di Antonio Martino



Antonio Martino (1942-2022) amava definirsi “semplicemente liberale”: il ricorso all’avverbio rispondeva all’esigenza di distinguersi dai tanti che la parola “liberale” l’accompagnavano sempre a qualche altro attributo, quasi non riuscendo a digerirla davvero quella adesione al liberalismo fatta più per opportunismo che per altro.

 

Antonio Martino, più volte ministro (agli Esteri e alla Difesa) ed economista, era nato liberale e tale era rimasto. La sua scomparsa il 5 marzo scorso priva la politica italiana di una voce che ha sempre difeso le ragioni di una società aperta e libera dall’invasività statale. Spesso non conforme alla narrazione prevalente, Martino si è distinto in passato nel sostenere coerentemente un reale ammodernamento dell’Italia, sostenendo anche le iniziative promosse in tal senso dai radicali. 

 

Lo fece nel 1999, quando presentò in Parlamento un pacchetto di disegni di legge, che ricalcavano le oltre venti proposte di referendum allora depositate dai radicali nelle segreterie comunali per la raccolta di firme. Riguardavano i settori giustizia (dalla responsabilità civile alle procedure di elezione del CSM), lavoro (dall’abolizione del collocamento allo snellimento per il part-time e il lavoro a domicilio), fisco (dalla ritenuta d’acconto alle trattenute sindacali), pensioni e sanità.

 

Sono le riforme che l’Italia ancora attende e stenta a realizzare, a causa del blocco che pervade tuttora la struttura profonda del nostro sistema, zavorrato dal peso di istanze corporative più attente a preservare i privilegi delle oligarchie dominanti che non l’interesse dei cittadini.

 

In quell’occasione «Quaderni Radicali», la rivista diretta da Giuseppe Rippa, intervistò Antonio Martino e la conversazione fu pubblicata sul n. 64/65/66. La riproponiamo ora, dopo la sua morte, convinti  di quanto siano ancora attuali le considerazioni che Antonio Martino vi esprimeva. 

 

 

************************* 

 

 

Ci vorrebbe un partito della libertà

 

intervista a Antonio Martino

 

Fra le sorprese di queste elezioni europee, qualcuno ha osservato come, nonostante il voto fosse proporzionale, la tanto temuta polverizzazione dei suffragi non c’è stata…

 

A mio avviso, è risultato chiaro che da questa consultazione i fautori del proporzionale escono battuti. La concentrazione di gran parte degli elettori su poche liste è conseguenza dell’adozione del maggioritario nelle politiche. Non so davvero cosa sarebbe successo se non ci fosse stata la chiave di lettura maggioritaria, che rappresenta un fattore di notevole semplificazione.

 

Resta confermata la tendenza alla disaffezione dalle urne. Benché liberi dai vincoli del maggioritario, quasi un terzo degli elettori ha preferito comunque non votare. Un fenomeno che meriterebbe forse di essere analizzato più a fondo... 

 

E che dovrebbe preoccupare. È vero che cominciano a parlarne un po’ tutti, ma senza che si traggano le dovute conseguenze. Personalmente ho definito gli astenuti i “miscredenti” del voto. Ci sono infatti i “credenti”, coloro che vanno comunque a votare, qualsiasi cosa succeda, a sinistra come a destra. Poi ci sono i miscredenti che invece, per votare, hanno bisogno di una motivazione. Questo partito dei miscredenti è oggi il più grande partito italiano. E se continua così, si avvia a diventare non solo il più grande, ma la maggioranza. Per chi crede nella democrazia e nelle elezioni, un dato che non può essere trascurato.

 

Esprimerebbero dunque un elettorato d’opinione?

 

Per la verità, direi piuttosto che l’elettorato d’opinione è un sussistema della categoria dei “miscredenti”. Fra di loro vi sono anche persone animate da avversione pura e semplice per la politica, da quello che - con un termine che io odio - chiamano qualunquismo. Persone che o sono indecise e non sanno per chi votare, oppure hanno deciso di non partecipare affatto al voto.

 

Sorprendente è stato giudicato anche il consenso raccolto dalla Lista Bonino, sebbene anticipato da sondaggi che i mass media si sono ben guardati dal riprendere. Da parte nostra, ci appare come un primo forte colpo a quel “partito guelfo”, con cui definiamo l’assetto di potere, di stampo elitario, che caratterizza il nostro Paese…

 

L’affermazione della Lista Bonino si riallaccia perfettamente al discorso sui miscredenti, che a sua volta non è affatto incompatibile con la chiave di lettura che suggerite. Forse è quasi la stessa cosa, detta in altro modo. La gente vuole cambiare, non crede più nel sistema dei partiti tradizionale, e quindi ha cercato qualcosa di nuovo individuandolo nella Lista Bonino. Sono appunto miscredenti, persone che non hanno un radicato e stabile convincimento a favore di questo o quel partito esistente e che non possono inquadrarsi in categorie come quella di “blocco sociale”. Quest’ultima presuppone un’analisi quasi marxiana, descrivendo le scelte operate soprattutto in base agli interessi in gioco. Il che è in larga misura vero, ma è pure riduttivo rispetto alla situazione determinatasi...

 

Una situazione in cui è manifesto un alto grado di mobilità dei votanti... 

 

Questo è un fatto molto importante e, al tempo stesso, straordinariamente positivo. Un elettorato immobile, sclerotico è un elettorato che non valuta, che non critica. Anche l’assenteismo, che pure ha degli inconvenienti, segnala che siamo ormai di fronte a un elettorato che valuta di volta in volta come comportarsi e che pensa con la sua testa, che non si lascia influenzare.

 

Lo dimostrerebbe, fra l’altro, proprio la scarsa influenza delle campagne di stampa di alcuni organi di informazione a sostegno di liste che, certo, non hanno registrato risultati esaltanti…

 

Sì, da questo punto di vista si è trattato di una bella lezione... 

 

Nel merito, qual è la sua analisi del voto europeo?

 

Mi pare incontrovertibile che il centrosinistra non ha vinto. Semmai, specie al Sud, ha perso. D’altro canto, nemmeno il centrodestra ha vinto. Anche inteso in modo estensivo, esso non va oltre il 40%; in realtà è al di sotto. E quando non si supera il 50% non ci si può dire vincitori. 

Dirò di più. Sembrerebbe che abbia vinto Forza Italia, e in un certo senso è così. Tuttavia, ha preso soltanto 117.000 voti in più rispetto alle politiche e, secondo i miei calcoli, ha perso quasi un milione e mezzo rispetto alle Europee del ’94. Il voto in percentuale ha sicuramente un valore simbolico, che non va sottovalutato, ma a una lettura dei risultati assoluti il dato non appare altrettanto positivo.

 

Senza dubbio è stato un successo enorme per Silvio Berlusconi, che esce non sfiorato dagli attacchi subìti, perché non solo ha conseguito un successo personale, ma ha anche il primato di aver dato vita a un partito che oggi ha il più alto tasso di lealtà elettorale in Italia.    Un dato, questo, che mi ha stupito non poco. Se prima delle elezioni mi avessero chiesto qual era il partito col più alto tasso di fedeltà dei suoi votanti, avrei risposto Rifondazione comunista, che invece da quanto emerso nelle rilevazioni lo ha fra i più bassi. E, viceversa, se mi avessero domandato quale fosse il partito col più basso tasso di lealtà elettorale, avrei risposto Forza Italia, che invece risulta averlo più alto degli altri. Se ne deduce allora che questo partito virtuale, di plastica e così via non è né virtuale né di plastica. [...]

 

Già prima del voto, i radicali hanno lanciato una nuova campagna referendaria: un modo, innanzi tutto, per fissare uno scadenzario certo alle riforme liberali di cui ha bisogno l’economia italiana.    Qual è il suo giudizio sull’uso del referendum in politica?

 

Personalmente mi considero un convinto referendario. Credo cioè molto all’utilità e all’importanza di questo strumento di democrazia diretta. Specie se si consentirà al referendum di funzionare. In questo senso sono favorevole all’abolizione del quorum, onde evitare il ripetersi della situazione verificatasi il 18 aprile scorso quando le centocinquantamila persone rimaste a casa hanno annullato il pronunciamento di 22 milioni di votanti. Un fatto sicuramente inaccettabile. Oltre tutto, coloro i quali si preoccupano della ridotta affluenza alle urne dovrebbero considerare che, se non ci fosse il quorum, l’affluenza sarebbe senz’altro maggiore perché i fautori di una determinata tesi, sapendo che se non vanno a votare favoriscono la tesi avversa, non diserterebbero certamente le urne. 

 

Esiste però il problema della sfiducia dei cittadini sugli effetti del referendum…

 

Questo è un problema reale. Quando prima descrivevo il comportamento dei cittadini “miscredenti”, la mia non voleva essere una critica. Io condivido molte delle loro ragioni e, del resto, abbiamo visto come i referendum sono stati sistematicamente disattesi. Di fronte a questo esito, è normale concludere che è inutile andare a votare se tanto poi non succede nulla. Ma qui torniamo al punto di partenza. Se non cambiamo anche il sistema elettorale, non approderemo a niente.

 

Questa volta i referendum sono raccolti in quattro pacchetti, che riguardano fisco, giustizia, lavoro e finanziamenti pubblici, cui si aggiunge la riproposizione di quello elettorale. Che ne pensa?

 

Sono favorevole a tutti. Mi lascia un po’ perplesso solo quello relativo alla smilitarizzazione della Guardia di Finanza. Non lo capisco, ma mi adeguo. Alcuni dei referendum proposti, come ad esempio quello sul sostituto di imposta, da soli sarebbero enormemente innovativi, perché consentirebbero un sistema fiscale più trasparente. E con un sistema fiscale più trasparente forse anche il consenso dei cittadini sarebbe assai più consapevole. Anche l’intervento sui finanziamenti pubblici a partiti e sindacati è di grande rilevanza, perché incide direttamente sul modo di fare politica e potrebbe favorire un cambiamento davvero radicale...

 

Nelle conferenze stampa del dopo voto, Bonino e Pannella hanno precisato che quello dei referendum è il cammino più diretto verso le riforme, ma nulla impedisce al Parlamento e al Governo di legiferare in tal senso. Le proposte di legge che ha presentato alla Camera intendono accogliere questa indicazione?

 

In effetti è così. Con l’on. Savelli, non abbiamo fatto altro che raccogliere l’invito radicale e presentato sotto forma di disegni di legge le proposte referendarie. Ora vediamo chi ci sta, anche perché - l’avrà senz’altro notato - il 14 giugno pare siano tutti diventati improvvisamente radicali. Una cosa incredibile: trinariciuti statalisti, che avevano sempre predicato la difesa delle grandi conquiste per la tutela del mercato del lavoro, a parole si dichiarano tutti pronti a dar ragione ai radicali liberisti. “Sì certo”, dicono, “si deve liberalizzare il mercato del lavoro”. Queste proposte di legge possono servire a scoprire chi davvero è d’accordo.

 

Quali prospettive di riuscita ritiene ci siano?

 

Devo dire sinceramente che non mi faccio molte illusioni. Per varie ragioni, la principale delle quali concerne l’attività parlamentare. Malgrado la recente riforma del regolamento della Camera è raro che le proposte dei singoli deputati giungano ad essere poi discusse...

 

Qualora ci fosse un sostegno convinto delle forze politiche, non sarebbe diverso? Che situazione va delineandosi? 

 

Senza dubbio in Forza Italia saranno in molti a sottoscriverle e già di per sé questo è un fatto significativo. Non mi azzardo a fare cifre, ma non mi stupirei che diverse decine di parlamentari siano disponibili a firmarle. E questo vale anche per An. Fra l’altro è possibile qualche forma trasversale di partecipazione, perché vi possono essere consonanze anche con la sinistra o i suoi alleati di centro. Quando dopo la raccolta delle adesioni dovessimo arrivare a 50-70 parlamentari...

 

Non crede che tale iniziativa potrebbe funzionare da piattaforma per un coordinamento delle forze di area laica, liberale e garantiste presenti in Parlamento?

 

Questo è forse possibile, ma occorre tener conto di un problema di carattere generale e di grandissima importanza. Il quesito è questo: è preferibile avere un partito della libertà che coerentemente si batte per l’affermazione dei propri ideali, da contrapporre a un partito dello statalismo e dell’autorità che, viceversa, difende la prevalenza dello Stato; oppure è meglio avere - come sosteneva Croce - un partito liberale che sta fuori dei giochi e che cerca di subentrare di volta in volta? Bene, le confesso che anche in questo non sono d’accordo con Croce. Pur rendendomi conto che riporre le speranze di libertà in un solo partito può essere rischioso, sono d’accordo con Antonio De Viti De Marco (1858-1943), il quale sosteneva che una delle ragioni del successo del fascismo era stata la confusione. Il fatto cioè che nei partiti c’erano persone che pensavano in modi diametralmente opposti. C’erano i libertari e i protezionisti, i fautori dell’intervento pubblico e quelli della libertà di mercato. Da questa confusione emerse poi il fascismo.

 

(intervista a cura di Luigi O. Rintallo)

 

(da Quaderni Radicali n. 64/65/66 luglio 1999)

 

 


Aggiungi commento