Per quanto adusi al gioco mistificante, sarà difficile per gli attori del circo mediatico-informativo incasellare il 30% dei No al referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari come espressione dei difensori della casta o dei conservatori. Come, d’altro canto, i votanti a favore della modifica promossa dalla maggioranza grillo-leghista nel 2019 non possono certo ascriversi tutti – come voleva il ministro Di Maio – agli anti-establishment.
Di anti-establishment alberga ben poco tra le forze politiche che hanno sostenuto il Sì. Se non altro per l’ovvia ragione che – dai 5Stelle al PD, alla Lega e a Fratelli d’Italia – tutte ne sono in qualche modo parte integrante e tutte hanno esortato gli elettori ad approvare la riduzione da 945 a 600 rappresentanti. Pensare che quest’ultima sia di per sé una prova della volontà di contrapporsi al sistema dominante non può convincere nessuno.
Piuttosto, anche su questo referendum costituzionale, si è riprodotto lo stesso meccanismo riscontrabile in passato con altre consultazioni referendarie. Già in occasione dei referendum elettorali del 1991 e del 1993, per esempio, la confluenza di tutti i partiti operò come un anestetico della carica riformatrice e infatti da essi scaturirono provvedimenti funzionali alla conservazione degli equilibri di potere tradizionali. Lo stesso può dirsi per questo Sì alla riduzione dei parlamentari, laddove ad esso seguirà una riforma elettorale pensata più che altro per rispondere alle mire e manovre dei vari soggetti politici interessati.
A confermarlo non sono soltanto i boatos sulle spartizioni e sugli accordi ai quali stanno lavorando PD e 5Stelle – dal cambio della guardia alla regione Lazio, con Zingaretti direzionato altrove, sostituito dalla penta stellata Roberta Lombardi, al baratto di un sistema proporzionale che permetta al M5S di continuare a contare qualcosa – ma anche la lettura dei risultati su scala territoriale. Il Sì vittorioso soprattutto nel Mezzogiorno è un indizio di non poco conto sulla natura gattopardesca di questo voto referendario.
Le stesse regioni dove più forte ha pesato il retaggio di un rapporto tra cittadini e politica all’insegna del reciproco vantaggio particolaristico, sono quelle dove si è saliti ben oltre il 70% dei voti favorevoli. È il frutto dei lunghi decenni trascorsi nella coltivazione di un ribellismo sterile, conforme agli obiettivi prefissati dai gruppi di potere e dal blocco sociale ritrovatosi acquartierato dietro le figure degli amministratori locali.
Che sul risultato finale abbia influito l’accorpamento con il voto amministrativo, lo rileva l’analisi fatta dall’Istituto Cattaneo di Bologna. Nelle sette regioni dove si votava per i governatori vi sono stati 15,5 punti percentuali in più di affluenza: il fenomeno ha avuto particolare rilevanza nel Sud, dove tradizionalmente l’astensionismo è maggiore, spingendo più elettori a votare il referendum costituzionale.
Un traino che ha contribuito a far crescere la percentuale dei Sì e che dimostra come fosse giusto denunciare la gravità dell’inedito accorpamento tra referendum e voto amministrativo: da esso è dipeso tanto un “intervento” correttore sull’esito referendario, quanto una torsione della stessa espressione della volontà degli elettori. La responsabilità di tutto ciò ricade sulla Corte Costituzionale, che ad agosto ha apposto il suo consenso alla decisione del governo Conte.
Dallo studio dell’Istituto Cattaneo emerge anche un altro elemento che fa dubitare circa la “spinta al cambiamento” riconosciuta da molti nel Sì. Nel confronto a campione su alcune città tra i due referendum costituzionali del 2016 e del 2020, si nota come i No al primo – quindi i contrari a riformare – si siano per lo più convertiti in Sì nel secondo sulla riduzione dei parlamentari: a dimostrazione che quest’ultima non arreca di per sé alcuna reale carica innovativa, ma si limita a essere percepita – nell’ottica dell’anti-politica – come un modo per sfoltire i rappresentanti del popolo.
A urne chiuse, si potrebbe ancora riflettere sul peso del 30% dei No e sul fatto che, come nel lontano referendum sul finanziamento ai partiti del 1978, esso manifesta un’area di dissenso vasta rispetto alla quasi unanimità espressa dalle forze politiche presenti in Parlamento.
Senza cedere a letture consolatorie, va comunque riconosciuto che gli oltre sette milioni di elettori che hanno messo la croce sul No hanno compiuto un atto non conformista, si sono sottratti alla campagna martellante della compagnia circense dei conduttori e commentatori televisivi – loro i veri sconfitti dal momento che da subito hanno puntato su percentuali bulgare per il Sì – e rappresentano, contemporaneamente, una formidabile ipoteca per le manovre di regime che vanno profilandosi.
Per tali manovre la strada non sarà piana e, difatti, i più accorti fra gli esponenti non solo politici, ma anche sociali ed economici, già iniziano a ponderare strategie meno scontate rispetto alle logiche puramente spartitorie. E non è detto che il risultato del 21 settembre 2020 sia davvero una blindatura dell’attuale assetto, ma possa anzi rappresentare un primo ribollio della morta palude in cui stagna la politica del Paese.
Nel frattempo, nel 30% dei No è possibile individuare porzioni importanti di una società dinamica e volenterosa di cambiare davvero: le stesse che dissero No al ripristino dei punti di contingenza nel 1985; oppure aderirono ai referendum (purtroppo senza quorum) dei soli radicali nel 1997 e nel 2000 sulla libertà di lavoro e impresa e sulla giustizia. Sapere che ci sono fa bene all’Italia.
(disegno da Money .it)
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