Un po’ tutti i soggetti politici di questa crisi di governo devono affrontare un dilemma di natura tattica: meglio una guerra lampo o di posizione? La Lega di Salvini, dopo aver denunciato l’inerzia in cui il governo Conte si era arenato, è sembrata optare per la prima soluzione: puntare rapidamente al voto e capitalizzare l’aumento di consensi registrato alle europee.
Tuttavia, potrebbe anche non dispiacerle una dilazione di tempo, specie se questa fosse occupata dalla formazione di un dicastero dove il M5S, rovesciando l’alleanza siglata a giugno del 2018, si schierasse con il PD, in quanto ciò ne favorirebbe lo sfibrarsi della base elettorale e condurrebbe a un bipolarismo di tipo nuovo, tra un partito Arcobaleno (incarnata da globalisti-filo UE, quindi PD e sinistra) e un partito – chiamiamolo così – Tricolore, espressione dei sovranisti dove alla Lega toccherebbe comunque un protagonismo quasi esclusivo.
Specularmente, il Movimento 5 Stelle si dibatte nella stessa alternativa. Da un lato, il voto a breve certificherebbe il drastico calo dei voti rispetto al 2018 e pertanto è forte la spinta a prolungare la legislatura mantenendo le posizioni, anche alleandosi con il PD; dall’altro, affiora la consapevolezza che andando a votare presto si conserverebbe comunque una presenza ragguardevole in Parlamento, che non è altrettanto garantita qualora il PD di Zingaretti finisse, grazie al suo prevalere durante l’azione di governo, per logorare e infine assimilare gran parte dei voti pentastellati.
E in questo senso la pregiudiziale “europeista” unita alla richiesta di “discontinuità”, pone le premesse di un rapporto di netta subordinazione rispetto al nuovo alleato, forse ben più limitante di quello con la Lega. Il rischio concreto è quello di ritrovarsi a dire sempre e solo “grazie e sissignore”, perdendo ogni possibilità di svolgere un ruolo autonomo che certo non si salvaguarda con la richiesta di far passare la riforma della riduzione dei parlamentari.
Sia perché, come ogni revisione costituzionale, quest’ultima dovrà essere sottoposta a referendum confermativo (con la non remota possibilità di essere respinta dal corpo elettorale come le precedenti riforme della devolution di centro-destra e dell’abolizione del Senato renziana), e sia perché la sua portata innovativa è davvero risibile è discutibile, dato che a motivarla è soltanto il calo della spesa (meno 500 milioni di euro, dicono, ma in realtà poco più della metà in 5 anni, a fronte di 2.400 miliardi di euro di debito pubblico e con una ulteriore lesione della rappresentatività) che, nella voragine delle uscite statali, è come se obbligati a un rimborso di 10.000 euro al mese pensassimo di risalire la china rinunciando ai 30 euro mensili per il caffè.
Dovrebbe ben più preoccupare la faciloneria dimostrata ieri dai parlamentari, approvando i vincoli imposti dal fiscal compact o la partecipazione – senza significativi ritorni – al fondo salva-Stati, che hanno contribuito non poco a far sì che il nostro Pil sia ormai da un decennio così asfittico e sottoscrivere questa condizione non lascia affatto prefigurare un’inversione di tendenza. I fattori di incertezza, dunque, non mancano dentro i 5Stelle.
Ancor più problematica si presenta la scelta fra andamento lento o veloce della crisi per il PD, se non altro per il permanere della faglia divisiva tra renziani e nuova maggioranza di Zingaretti uscita dalle primarie.
A Matteo Renzi occorrerebbero dalle venti alle trenta settimane di tempo, per dare corpo a una iniziativa che lo rimetta al centro. Formare un governo con il M5S prolungherebbe quel tanto che basta per determinare nuove condizioni ed eventualmente, dopo un ulteriore passaggio, portare a una ricomposizione delle forze politiche attorno a un progetto capace di giungere sino alle scadenze importanti: dalle prossime amministrative all’elezione del Capo dello Stato.
Resta da vedere se questo disegno non sarà ostacolato dall’attuale segreteria del PD, la quale deve anch’essa decidere se puntare subito all’incasso con il voto così da ridurre l’influenza dei renziani, oppure dar vita al governo con il M5S e - dall’interno dei ministeri - condizionarlo sino al punto di riassorbirne parte dell’elettorato e di procedere alle tradizionali politiche intraprese in passato dal centro-sinistra, quanto mai inidonee ai bisogni del Paese in questa fase.
Si può ben comprendere che al Quirinale sia in corso un’attenta considerazione su tutti questi risvolti. Rischiare di favorire la nascita del governo PD-M5S e magari ritrovarsi nella condizione del governo Prodi, convinto di avere la fiducia, che poi non arrivò per il disimpegno di pochi eletti non è certamente fra le prospettive auspicabili.
D’altro canto, stando a quanto accaduto negli ultimi cinque lustri, il cosiddetto “partito del Quirinale” – al di là dei suoi temporanei inquilini – ha mostrato sempre di preoccuparsi degli equilibri interni all’establishment e occorre vedere, anche stavolta, quale sia il reale vantaggio per quest’ultimo.
Ma poiché vi sono molti dati in sospeso relativi ai rapporti da instaurare con gli interlocutori esterni – dall’asse franco-tedesco al ruolo atlantista di USA e Regno Unito – è assai probabile che prevarrà un comportamento di grande cautela, volto a rimandare il momento delle decisioni a quando il panorama mondiale meglio si definirà.
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