In una gara con corridori che hanno pressoché la stessa prestanza fisica, a fare la differenza sono i contrattempi o gli ostacoli incontrati nel percorso. Di Maio e Salvini, a capo delle forze che compongono la maggioranza di governo, presentavano più o meno identiche condizioni: entrambi hanno trovato nutrimento nell’anti-politica; su entrambi si è concentrato il cono di luce mediatico; sia l’uno che l’altro hanno presentato all’elettorato prodotti allettanti, capaci da un lato di calamitare consensi e, dall’altro, di inchiodare le opposizioni (PD e Forza Italia) ai loro passati errori e dissesti.
Come spiegare allora l’ampio divario tra loro, registrato alle elezioni del 26 maggio, con la Legache prende il doppio dei voti del Movimento 5 Stelle? All’indomani del voto, molti si sono esercitati nel dare una risposta. A nostro parere, tuttavia, queste letture non hanno colto l’essenziale perché fatte indossando le lenti del pregiudizio ideologico, tanto da suggerire rimedi che vanno addirittura nel senso opposto del messaggio giunto dalle urne.
Sui risultati elettorali di 5Stelle e Lega, per comodità, consideriamo quanto sostenuto rispettivamente da Antonio Padellaro e da Gad Lerner. Il giornalista del «Fatto quotidiano»ritiene che il M5S farebbe bene ad andare all’opposizione e non esita ad auspicare una sostituzione di Di Maio con esponenti quali l’afasico Fico, allo scopo di recuperare consensi. A sua volta Lerner rispolvera un Marx da bignami e, in un twitter per spiegare il successo leghista, ricorda che “già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene”. Le due posizioni possono dirsi emblematiche di gran parte dei commenti comparsi dopo il voto e per questo è utile svolgere qualche riflessione al riguardo.
Alla redazione del «Fatto quotidiano» evidentemente c’è il rammarico per il mancato accordo tra M5S e Partito Democraticoe, per questo, l’insuccesso alle elezioni europee viene attribuito al connubio con la Lega, giudicato da Padellaro innaturale. Eppure dovrebbe far riflettere che il calo pentastellato non si deve tanto a un presunto cedimento verso Salvini o a una fuga di elettori verso sinistra. Come dimostrato dalle rilevazioni post-voto, è accaduto anzi il contrario con un 14% dei nuovi consensi alla Lega che proviene proprio da chi alle politiche di un anno fa aveva votato per il movimento di Di Maio. Pensare di fermare l’emorragia di consensi invocando una sterzata anti-leghista pare davvero in contrasto con la realtà emersa dal 26 maggio.
Se consideriamo la campagna elettorale dei 5Stelle nelle settimane precedenti, si può anzi affermare che le ragioni del loro mancato appeal trovano spiegazione altrimenti. In particolare, bisogna riferirsi ai tre totem mediatici che sono stati scelti come argomenti polemici verso l’alleato di governo e cioè le inchieste giudiziarie sulla corruzione politica, l’attacco ai dissidenti dal “politically correct” e l’ambiguo sostegno in nome della solidarietà verso le posizioni delle ONG e della Chiesa di Bergoglio.
Dagli esponenti grillini e dallo stesso vice-presidente del Consiglio Di Maio si è cavalcato il giustizialismo, senza farlo al modo del Pds dei tempi di Luciano Violante che, per lo meno, in qualche modo “direzionava” politicamente tale atteggiamento, ma ponendosi in un ruolo puramente gregario rispetto alla corporazione dei magistrati.
Ugualmente è accaduto a proposito della rivendicazione di “modernità” espressa contro gli “sfigati” difensori dei valori tradizionali, laddove essa risultava a rimorchio del mainstreamcosì come si manifesta nei salotti intellettuali e giornalistici con parole d’ordine ormai fruste. Infine, anche i ripensamenti circa l’azione svolta dal Ministero dell’Interno nel contrasto all’immigrazione clandestina, sono apparsi dettati più dalla strumentalità e dalla ricerca di una qualche sponda in Vaticano che non da una politica realmente alternativa.
Per di più i tre totem hanno una particolarità in comune: negli ultimi tempi, agli occhi di molti, appaiono denudati dalle loro maschere e si rivelano sotto altre spoglie. Difficile separare le inchieste giudiziarie contro i politici dalle condizioni in cui versa la magistratura italiana, caratterizzata da lotte intestine e parzialità scoperte che ne inficiano irrimediabilmente la credibilità.
Altrettanto problematico è riconoscersi negli odierni difensori dei “diritti civili”, quando da essi i diritti danno luogo al pronunciamento di anatemi contro chi dissente o a disposizioni prescrittive, oscurando le criticità di pratiche come – dal mio punto di vista - l’utero in affitto che rischiano di produrre nuove forme di schiavitù e sfruttamento. Quello sfruttamento economico che troppe volte vediamo intrecciarsi anche nel solidarismo peloso, che si muove attorno ai migranti divenuti oggetto di un business.
Più che l’offensiva salviniana o l’attività di governo, a condizionare l’esito deludente per i 5Stelle è stata la scelta dei temi della loro agenda, in quanto evidentemente essi si pongono in collisione con quello che è il cambio di passo di quello che i tedeschi chiamavano lo zeitgeist, lo “spirito del tempo”.
Di Salvini molti evidenziano un’affinità con Renzi nella natura precaria della leadership: sarebbe questa una caratteristica della società politica di oggi. Ma i temi che la Lega ha saputo cavalcare nella sua campagna non sembrano così volatili ed è questo che dovrebbe spingere nell’analisi del voto a non lasciarsi irretire troppo da cliché scontati come quelli del tweet di Lerner. Tanto più che, nel solito tentativo di associare il leader leghista al pericolo di una deriva fascistoide, è per di più impreciso nel merito.
La Lega ha sfondato il muro del 40% in tutte le regioni settentrionali, dove i suoi elettori non è che siano proprio tutti operai e contadini. Piuttosto dovrebbe far riflettere che il mondo delle piccole imprese e del lavoro autonomo non ha girato le spalle al leader leghista, nemmeno dopo che la rappresentazione sui media lo ritraeva come succube dei 5stelle sul piano economico.
In aggiunta a ciò una nota storica: le “classi subordinate” non hanno mai espresso il loro consenso nelle urne al fascismo, che sinché si è votato si attestò su percentuali risibili. Il potere, Mussolini lo conquistò piuttosto grazie alla congiura dei “competenti” dell’establishment di allora: monarchia e nomenclature.
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