" ... Direi innanzi tutto cosa mi ha impressionato di questo libro. Mi ha impressionato il solo fatto che è stato scritto e che ponga una serie di argomenti, di temi, di spunti di riflessione talmente densi che, mentre leggevo, mi sono detto: qui ci sarebbe occasione per non so quanti convegni, quanti dibattiti. Praticamente in ogni pagina c’è uno spunto.
Poi mi sono detto: questa è la dimostrazione che stiamo vivendo un’epoca abbastanza assurda, perché libri come questo di Rippa un tempo sarebbero stati, non dico la norma, ma sarebbero stati libri abbastanza diffusi perché era diffusa la politica, la cultura politica. Sono libri di cultura politica.
Oggi sembra – lo dicevo prima a Paolo Brogi – che siamo qui in una catacomba, perché siamo un piccolo gruppo che discute di argomenti e di temi che hanno a che vedere con la cultura politica del nostro Paese, con l’essere liberali, che hanno a che vedere con la memoria storica che è completamente smarrita in questo Paese. Il tratto dominante di questa fase è la fine della memoria storica e il fatto che si vive, come diceva adesso Rintallo, in una bolla di eterno presente dominato dai social network e dalle loro degenerazioni.
Quindi, questo libro è interessantissimo perché segue – com’è stato detto – il percorso di una biografia. La biografia segna la miglior storiografia, soprattutto anglosassone ma in qualche caso anche italiana, e si fonda sulla storia di una persona o un personaggio, e su quello si può ricostruire la tensione di un’epoca. Giuseppe Rippa, in questo libro-intervista, ripercorre la sua storia.
Ha detto bene Rintallo: come mai un giovane ventenne, anziché lasciarsi affascinare dall’ideologia comunista che andava per la maggiore o, diciamo, entrare in un’organizzazione cattolica sceglie di essere liberale? Liberale senza aggettivi, come recita il sottotitolo. L’essere radicali era un modo di essere liberali, anzi è palese in questo libro che mentre il Partito liberale appariva deludente agli occhi di un giovane, che chiedeva alla politica di sprigionare energie, essere radicali significava realmente essere liberali. Ma non c’è mai in queste pagine una forma di integralismo, che pure nel partito radicale di Marco Pannella era presente.
Qui vedo, invece, un interesse vero nell’andare a ricercare le ragioni della cultura liberale italiana. Di questa cultura che, fin dagli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, fatica a incunearsi tra le due chiese cattolica e comunista. Però ci riesce, con molta fatica: i riferimenti al «Mondo» di Pannunzio sono nell’intervista molto interessanti, al «Mondo» di Pannunzio e a tutta quella temperie intellettuale che vi era intorno.
E che poi Rippa riporterà in tutta la sua attività pubblicistica, che per molti e molti anni è un tentativo di aggregare forze che in vario modo si dicono liberali e, dicendosi liberali, non possono non essere attratte in forma dialettica e talvolta anche conflittuale dall’orizzonte del partito radicale di Pannella, che nasce proprio dal fallimento sostanziale del tentativo di Pannunzio di dar vita a un movimento politico partendo dalle colonne de «Il Mondo». Che Rippa definisce in una pagina “giornale con una grafica un po’ retrò”; a me francamente non sembrava retrò, devo dire che era abbastanza innovativa per l’epoca, nasceva da Longanesi e poi fu ripresa dal primo «Espresso», ma comunque questo è un dettaglio…
Questo è uno sforzo di portare il tema dei diritti civili nel dibattito italiano. Il dibattito italiano è dominato dalle grandi ideologie, che effettivamente non prevedono spazi per i diritti civili. È un tema anglosassone, ma è un tema che caratterizza una forza liberale: la grande intuizione di Pannella è di uscire, almeno in parte, dai temi strettamente economici e sociali, fondati su una lettura in parte di classe dello scontro, e di portarlo sul terreno dell’affermazione dei diritti individuali. Diritti di libertà… questa è la grande intuizione di Pannella ed è quello che affascina un giovane come Geppi, e che affascina alcuni altri che non sono affiliati alle due chiese ma hanno cercato di trovare un loro spazio anche in altre formazioni, che si rifacevano comunque a un pensiero liberale.
Anche se qui poi nasce una divaricazione e spieghiamo quale: per esempio, in un’altra pagina Rippa dice che viene affascinato – lui è napoletano – dalla rivista «Nord Sud» di Francesco Compagna, altra espressione di una cultura liberale che si contrappone al Partito comunista napoletano, che poi è il partito di Giorgio Amendola e quindi non un partito insensibile ai temi sociali (non ai diritti civili). Compagna veniva dal Partito liberale, ma l’aveva visto troppo conservatore, troppo chiuso, esso sì davvero retrò e, nel Partito repubblicano, porta una ventata di liberalismo. Nel libro si legge a un certo punto che il Partito repubblicano aveva abbandonato il mazzinianesimo: è in parte vero, perché il partito di Ugo La Malfa abbraccia temi che vengono dalla cultura liberale anglosassone e li porta nel dibattito.
Naturalmente, non c’è nemmeno lì la spinta verso i diritti civili: questa è la vera caratteristica di Marco Pannella. E si arriva al grande tema, cui giustamente viene dedicato grande spazio, del referendum del 1974 sul divorzio. Quello è un grande elemento di esplosione: il sistema conosce un momento di frattura profonda, cioè la tendenza al consociativismo del sistema che si materializza una volta superati i più forti contrasti imposti dal dopoguerra. Il sistema diventa consociativo, fondato su quella partitocrazia che viene denunciata da Pannella, ma non soltanto da lui; ricordiamo Giuseppe Maranini, che era un liberale e che denuncia tra i primi la degenerazione partitocratica.
Quella degenerazione partitocratica che Biagio de Giovanni, nella sua postfazione, nega sostanzialmente, prendendo le distanze da questa interpretazione e sottolinea l’importanza di un sistema costruito sulla “Repubblica dei partiti” come diceva Scoppola.
Però, la Repubblica dei partiti contiene in sé i germi della degenerazione nel momento in cui manca l’alternanza. Quello che è stato il grande merito di Pannella è di aver cercato di imporre temi correttivi della degenerazione partitocratica. Quello che è stato il suo limite – e qui mi pare che il libro dica molto al riguardo – è stata sostanzialmente l’incapacità di costruire, partendo da queste idee, un’aggregazione politica capace di spezzare definitivamente il consociativismo e di imporre le ragioni dell’alternanza.
Ripeto, il libro è molto complesso e qui è chiaro che si va un po’ per sommi capi, ma non c’è dubbio che nel momento in cui la lunga storia radicale, con tutte le sue contraddizioni, i suoi limiti e i suoi errori – per esempio, io non sono del tutto convinto di tutte critiche che vengono mosse a un certo punto ad Emma Bonino, anche se non ho condiviso personalmente l’operazione di +Europa che si è fatta nelle elezioni di marzo, perché mi è sembrata un po’ troppo subalterna alle ragioni del Partito democratico in un momento in cui era evidente che il PD di Renzi si avviava a una sconfitta; detto questo, però, credo che Emma Bonino abbia dato un tale contributo, con le sue idee e le sue caratteristiche, alla storia complessiva del Partito radicale che non si poteva probabilmente chiederle di più in questo momento e in queste condizioni storiche.
Ma chiudo la parentesi. Oggi c’è lo sbriciolamento della politica e della cultura politica. Ha ragione ancora Rintallo, l’individualismo, i diritti individuali posti storicamente dal Partito radicale, inteso come la migliore espressione della cultura liberale in Italia, oggi sono completamente frantumati. Questa società priva di memoria storica in cui stiamo vivendo è una società che pone problemi, per adesso, alla politica manifestandone tutta la profondissima crisi; in prospettiva io temo anche alla democrazia, perché una democrazia priva di opposizione non è tale.
Se è vero – cito ancora Rintallo – che oggi viviamo in una cittadinanza sfibrata, in cui i diritti sono sempre più impalpabili, in non c’è il passato e non c’è il futuro, in una situazione in cui, stando agli ultimi sondaggi, le forze di governo hanno più del 60% del consenso, fondato sulla mancanza assoluta di cultura liberale perché né la Lega né i 5 stelle sono espressione della cultura liberale.
Sono piuttosto espressione di una capacità di acquisire consenso, utilizzando in maniera anche spregiudicata proprio questi strumenti tecnologici moderni, ma sono assolutamente favoriti dal fatto che manca la cultura politica nel Paese. Manca un’opposizione che sia costruita sui presupposti di cui questo libro fa testimonianza. Questo è un elemento che, in prospettiva, può inquietare perché non si capisce dove possa rinascere questa cultura politica e come, su questo, possa rinascere un’opposizione.
Questo partito liberaldemocratico che, negli anni, non ha mai preso pienamente forma, né nella versione immaginata da Pannunzio né in quella dei partiti laici divisi da molti odi tra di loro, non è riuscito a Pannella nella sua estrema testimonianza sui diritti civili, né nell’operazione del partito transnazionale: insomma, tanti tasselli che insieme fanno una storia gloriosa, ma che ci hanno portato a dire oggi: che prospettiva c’è per questa cultura politica? C’è una capacità di ricostruire un’opposizione, a partire da queste basi? Francamente, oggi come oggi, sono molto pessimista: a me non sembra ci sia alcun barlume.
Guardate, il solo fatto che siamo qui riuniti questa sera è un fatto estremamente positivo, il solo fatto che Giuseppe Rippa abbia scritto questo libro è un elemento di grande rilevanza, perché cosa produce il Partito democratico? Non produce assolutamente niente, è un piccolo ceto politico che tenta di promuovere se stesso e di sopravvivere alla bell’e meglio. Cosa produce il centrodestra?
Ricordiamoci che Berlusconi, quando scese in politica, scese con l’argomento che lui era la risposta a quella che allora era la crisi della politica e che lui avrebbe fatto il grande partito liberale di massa.
Allora, e concludo, se il sottofondo di questo libro e delle nostre riflessioni è la crisi delle nostre classi dirigenti, perché di questo si tratta, oggi noi siamo governati da due partiti che hanno grandi consensi ma non hanno classe dirigente.
La cosiddetta prima Repubblica aveva certamente una classe dirigente, alcuni partiti che avevano magari pochi voti, però avevano una grande classe dirigente. Oggi il problema italiano è palesemente quello di ricostruire una classe dirigente.
Come, francamente non lo so: certamente non potrà essere costruita attraverso il web o i social network, questa è un’illusione. Non dimentichiamoci che il problema italiano non è soltanto italiano, credo che la fragilità che stiamo vedendo in Francia di Macron è anche il sintomo che quello che sembra un Paese capace ancora di selezionare classi dirigenti – e certamente lo è – ha selezionato un Presidente che sta dimostrando in questi giorni di avere basi molto fragili. E la fragilità di Macron non è nella storia della guardia del corpo, sta nel fatto che non è riuscito a integrarsi con un apparato dello Stato, un insieme di poteri che lui ha probabilmente sfidato con arroganza e adesso gli stanno presentando il conto.
Quindi c’è un problema di cultura liberale che riguarda la scuola, che riguarda la capacità e la necessità di rifondare i centri che possono affrontarla, diffonderla; e c’è anche un problema di selezione della classe dirigente. Il che significa che dobbiamo prepararci a una bella traversata nel deserto, non è una questione che si può risolvere dall’oggi al domani. Ci vorranno, credo, molti anni …”.
* Il testo è la trascrizione dell’intervento di Stefano Folli, editorialista del quotidiano !la Repubblica”, alla presentazione, giovedì 26 luglio a Roma presso lo Studio 33 a Trastevere, del libro di Giuseppe Rippa con Luigi O. Rintallo “l'altro Radicale – essere liberali senza aggettivi” (Guida editori). Il testo non è stato rivisto dall’autore.
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