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17/11/24 ore

La lunga battaglia dei Radicali sulla giustizia



di Rita Bernardini e Giuseppe Rossodivita

 

Quella dei Radicali con la giustizia è una storia che parte da lontano, quando, il 9 gennaio 1969, uno sparuto gruppo di Radicali, riuniti a Piazza Cavour, sotto il palazzo della Suprema Corte di Cassazione, meglio noto a Roma come “Palazzaccio”, metteva in atto la prima contro-inaugurazione dell’anno giudiziario, invocando una giustizia giusta, a fronte della paralisi, sì della paralisi, della giustizia.

 

Eravamo nel 1969, il mondo è cambiato, l’Europa è cambiata, l’Italia è cambiata, quella che invece non è mai cambiata è la struttura portante del sistema giustizia, rimasto ancorato al potere, immenso, delle corporazioni, in special modo della magistratura associata che quel potere vuole continuare a conservare, anche rispetto al potere legislativo ed esecutivo.

 

In Italia la ‘giustizia’ è strutturalmente e profondamente ingiusta, e rappresenta la principale fabbrica di violazioni di diritti umani fondamentali dell’individuo, riconosciuti a livello sovranazionale dalle Convenzioni ONU, dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed a livello nazionale dalla stessa Carta Costituzionale. E si tratta proprio di quel “sistema giustizia” che quei diritti umani fondamentali dovrebbe invece tutelare. Un esempio per tutti: la irragionevole durata dei processi.

 

L’art. 111 della Costituzione, al comma due dispone che la legge assicura la ragionevole durata del processo, mentre l’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo garantisce il diritto ad avere un processo in tempi equi e ragionevoli. E’ un principio elementare di civiltà giuridica. Il processo è già di per sé una pena per chi lo subisce. Eppure l’Italia è il Paese che vanta il triste record di condanne, che si contano a migliaia, da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, per l’irragionevole durata dei processi. Tanto che, oramai 15 anni fa, nel 2001, l’Italia fu costretta dalla Corte ad adottare un regime di ricorsi interni, al fine di evitare che le migliaia di ricorsi per l’irragionevole durata dei processi paralizzassero l’attività dei giudici di Strasburgo. Marco Pannella si scagliò contro quella legge, anticipando che si sarebbe trattato di un ‘pannicello caldo’, di una legge truffa, capace solo di illudere, come fanno gli illusionisti, i cittadini Italiani. E così è stato.

 

A quindici anni di distanza i ricorsi per la legge Pinto hanno ulteriormente ingolfato i ruoli delle Corti d’Appello, i risarcimenti riconosciuti dai giudici italiani sono ben presto divenuti irrisori e non conformi a quelli indicati dalla Corte Europea, i tempi per avere una sentenza che riconosce il risarcimento sono a loro volta diventati irragionevoli e la Corte Europea di Strasburgo è di nuovo sepolta dai ricorsi degli Italiani. Calcolando il numero dell’arretrato complessivo del sistema giustizia in Italia, oltre 10 milioni di processi tra civili e penali, si può tranquillamente dire che quasi ciascun cittadino che ha avuto la sorte o l’ardire di avere a che fare con i Tribunali o con le Procure, come imputato o parte offesa, attore o convenuto, ricorrente o resistente, ha avuto violato il suo diritto umano fondamentale ad avere un processo in tempi ragionevoli: si tratta dunque di milioni di cittadini.

 

E oggi in Parlamento anziché discutere di come rendere i tempi dei processi ragionevoli, si discute di come allungarli ancora, attraverso la ulteriore dilatazione dei tempi di prescrizione dei reati. Come decine di migliaia sono i detenuti italiani che anziché essere privati della loro libertà personale − che in ciò consisterebbe la pena della reclusione o la misura cautelare della custodia in carcere − sono stati e sono strutturalmente privati della loro libertà, del loro diritto alla salute, del loro diritto al cibo, all’igiene, all’intimità, alla dignità di essere riconosciuti e trattati come essere umani...

 

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