Nonostante le staffilate di Renzi nei confronti di Confindustria e Cgil appaiano ineccepibili per chiunque abbia consapevolezza della necessità di un cambiamento nel rapporto tra politica e sindacati e dell’inevitabile superamento dell’immobilizzante schema concertativo, le modalità con cui il segretario democratico ha mostrato di voler portare avanti la propria battaglia sembrano celare le stesse contraddizioni di carattere demagogico e personalistico rintracciabili nelle promesse riformistiche (finora avanzate solo verbalmente) dell’ex sindaco fiorentino.
Ai primi segnali di critica da parte di Squinzi e Camusso per i provvedimenti sul lavoro annunciati dal governo, il premier ha ribadito con fermezza la propria tendenza “autonomista”, quella dell’altezzoso “Ce ne faremo una ragione” e del rovesciamento delle tradizionali trattative con sindacati e Confindustria. Giungendo, peraltro, nella sua offensiva, a definire le resistenze della “strana coppia Squinzi-Camusso” come la “palude” contro la quale il “torrente impetuoso” delle riforme si ritroverà a doversi scontrare.
Le parole di Renzi non sono andate giù ai due, e soprattutto al segretario generale della Cgil, che in un’intervista a La Stampa ha manifestato il proprio orgoglio sindacale, con riflessioni condivisibili solo parzialmente. Alquanto strumentale, infatti, risulta essere l’allarme democratico lanciato da Camusso: “Posizioni come quella di Renzi, che riducono le forme di partecipazione, indeboliscono la democrazia”. Una considerazione che, se in astratto è in grado di sottolineare un pericolo – quello dell’eliminazione di ogni forma di dialettica con i sindacati – effettivamente presente e di prim’ordine, tace sul ruolo avuto in questi anni, nella pratica, dalle confederazioni sindacali.
Scovare tracce di quella pratica democratica ora evocata dall’inquieta Camusso, infatti, nel marasma della continua concertazione tra forze politiche e parti sindacali, appare ormai da decenni piuttosto difficile, se non impossibile. Alla strutturale deriva consociativa e partitocratica del Paese si è accompagnata, a partire dagli anni ’80, un’analoga degenerazione di tipo neo-corporativo nell’ambito delle relazioni sindacali che ha sistematicamente condannato al fallimento ogni ipotesi di riforma organica del mercato del lavoro.
E’ dunque questa – l’immobilismo – la democrazia che secondo Camusso dovremmo rimpiangere? La risposta è evidentemente no, e la sfida lanciata da Renzi va in questa direzione, quella discontinuità. Purtroppo, però, solo in apparenza. Ed è su questo secondo aspetto che invece le parole del segretario della Cgil riescono a cogliere un punto importante: “Renzi cavalca un’onda di parte dell’opinione pubblica. Ma forse ha anche un’idea diversa della relazione tra politica e società, peraltro tutta da sperimentare, quando dice che parla direttamente ai cittadini senza intermediazioni. E’ un modello ben conosciuto anche in Italia, nella versione politica di Berlusconi come in quella tecnocratica di Monti”.
L’ostilità di Renzi nei confronti delle lungaggini sindacali e confindustriali non comprende, difatti, al suo interno (come accade, in fondo, con gran parte delle posizioni del segretario Pd) alcuna visione alternativa del modo di gestire le relazioni con le parti sociali, ma si basa invece su una mera e demagogica accondiscendenza alle pulsioni di una parte dell’opinione pubblica, ormai ai ferri corti con ogni genere di rappresentanza, sia essa politica o sindacale ed imprenditoriale.
Lo dimostra la stretta vicinanza tra il premier e il leader della Fiom Landini, che di certo non si è distinto dai suoi colleghi per chissà quale approccio innovativo in materia sindacale, cavalcando, anzi, diverse volte, un antagonismo ideologico di vecchio stampo. Senza ricordare, poi, l’incolmabile distanza che, nel merito delle questioni, emerge tra i due in ogni occasione di discussione (si pensi, ad esempio, all’eterna disputa sull’art.18).
La coppia Renzi-Landini, insomma, non appare meno “strana” di quanto non lo sia quella formata dal capo di Confindustria e dalla leader della Cgil. Ed è proprio questa anomalia a dimostrare quanto in realtà, dietro le parole di fuoco del premier contro la pratica concertativa, ci siano soltanto meri calcoli di consenso. La vicinanza con Landini, in questo momento, porta acqua al proprio “mulino”; quella con Confindustria, Cgil e le altre sigle sindacali no. E’ tutto qui: non c’è riforma, solo demagogia.
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