Lo stato disastroso della giustizia italiana è sotto gli occhi di tutti, soprattutto dell’Europa, che è pronta a condannare l’Italia ad una maxi-multa per non aver risolto il problema del sovraffollamento carcerario, uno dei tanti sintomi di una crisi ben più profonda e strutturale.
La politica, tuttavia, da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, rimane in silenzio. Il leader di Forza Italia ha lanciato in questi giorni l’idea di costituire “un partito dedicato alle vittime della giustizia” per vincere le prossime elezioni e “dare finalmente vita alla riforma della giustizia”. Ma a rendere poco credibili le parole dell’ex premier sono prima di tutto i fatti e le sue stesse azioni.
Avendo governato per ben dieci degli ultimi vent’anni, infatti, il magnate di Arcore è certamente da annoverare tra i responsabili della lunga latitanza della politica di fronte alle degenerazioni del sistema giudiziario. Tante le promesse non mantenute dal quattro volte presidente del Consiglio, e molti gli errori imperdonabili da lui commessi, specie in virtù delle sue iniziali premesse di stampo liberale. Tra questi, soprattutto quello di aver ridotto la questione giustizia ad una mera vicenda personale, dunque politica, negando in questo modo ogni possibilità di confronto reale – che pure, entro certi ambiti, sarebbero potute emergere – con le opposizioni su questi temi, e lanciando un’offensiva senza precedenti nei confronti della magistratura, mai più felice di fare gruppo e difendere le proprie logiche corporative.
Credere, quindi, che Silvio Berlusconi sia veramente in grado ora di delineare una riforma della giustizia slegata dalla propria vicenda giudiziaria personale e capace di porre rimedio ad alcune delle tante piaghe in questione (dall’abuso della carcerazione preventiva alla responsabilità civile dei magistrati e la separazione delle carriere), è da ingenui, e la storia è lì a dimostrarlo.
Così come, d’altra parte, è da ingenui immaginare che un segnale di cambiamento possa giungere da colui che in maniera molto pretenziosa si è ormai erto a simbolo del rinnovamento, vale a dire Matteo Renzi. Le contraddizioni dell’affabulatore fiorentino sono molteplici, anche in tema di giustizia. Pur evocando il superamento dell’ideologia anti-berlusconiana che negli ultimi vent’anni ha reso impossibile discutere, a sinistra, di qualsiasi riforma del sistema giudiziario, Renzi ha puntualmente smentito, nei fatti, le sue proposte di cambiamento.
Come quando, nonostante si dichiarasse favorevole alla modifica della Bossi-Fini, della Giovanardi, della custodia cautelare e della responsabilità civile dei magistrati, ha ignorato completamente la raccolta firme dei referendum radicali, incentrati proprio su quelle tematiche. Stesso copione per l’ipotesi di amnistia o indulto. Dopo aver manifestato più volte solidarietà alla battaglia radicale per il ricorso all’amnistia o all’indulto come soluzione (iniziale) dell’indegno problema del sovraffollamento carcerario e dell’elefantiaca lentezza dei processi, Renzi è tornato sui suoi passi e durante le primarie ha bollato questa possibilità come “un gigantesco errore”.
Il neo-presidente del Consiglio, da questo punto di vista, ha deciso di collocarsi in assoluta continuità con la negligente classe politica che, aldilà di rituali promesse di redenzione, mai ha mostrato la volontà di interessarsi alla questione carceraria e giudiziaria in modo concreto, pretendendo di assumere tra l’altro le vesti di innovatore liberale.
L’ultimo paradosso del renzismo, indicativo di quanta scarsa attenzione venga riposta dallo schieramento di centro-sinistra alla crisi della giustizia e dello stato di diritto, è rintracciabile nella stessa tabella di marcia presentata dal premier durante la conferenza stampa-televendita della scorsa settimana: “Nel mese di aprile la riforma della Pubblica amministrazione, a maggio il fisco e a giugno la giustizia”.
Per parlare di giustizia, insomma, secondo Renzi, si dovrà aspettare, almeno fino a giugno. Peccato che, come ricordavamo qualche giorno fa, la Corte europea dei diritti umani abbia fissato al prossimo 28 maggio il termine entro cui trovare una soluzione al sovraffollamento carcerario e introdurre una procedura per risarcire i detenuti che ne sono stati vittime.
Basta osservare i comportamenti sopraccitati dei due principali leader politici del Paese per capire quanto, nonostante anche le timidi pressioni del Quirinale, il richiamo di Strasburgo sia ormai destinato inevitabilmente a non essere accolto, nella più totale noncuranza dell’intero sistema partitocratico, che lo si guardi da destra come da sinistra.
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