Il rugby, si dice, è formato da due gruppi distinti di persone: coloro i quali trasportano il pianoforte (gli avanti) e coloro i quali lo suonano (i trequarti). Mi è stato chiesto perchè una volta i rugbysti erano, in larga parte, uomini un po' in sovrappeso, brutti e ignoranti, insomma dei giganti dal cuore buono (mica tutti) pronti ad incornare anche un muro se fosse stato necessario. mentre quelli di oggi sono degli adoni dal fisico pazzesco.
Effettivamente la stragrande maggioranza dei giocatori che vediamo scendere in campo oggi sono dei corazzieri di almeno un metro e ottanta, dai fisici mozzafiato e pure bei ragazzi: "non sarà mica che il doping adesso c'è anche nel rugby?". Fregnacce, è la risposta di pancia: l'unico doping che abbia mai visto nelle infermerie è la birra alla spina.
Doping a parte, che purtroppo è presente in ogni disciplina sportiva (ping pong e curling compresi), con la testa tenterò di spiegare cosa è cambiato nel rugby, che negli ultimi vent'anni ha registrato la quasi totale scomparsa dell'Homo Neanderthalensis per il più prestante Homo Sapiens: il passaggio al professionismo nel 1995 e la spettacolarizzazione sempre più forte del gioco, grazie anche all'introduzione di nuove regole per gli avanti, hanno rapidamente cambiato anche l'approccio fisico nella preparazione atletica di questo sport, che è diventato più veloce, più preciso, più televisivo.
Il rugbysta moderno corre più velocemente e quindi, quando ti viene addosso, fa molto più male. Per contrastarlo è evidente che o sei bravissimo a placcare, più che bravissimo se sotto il metro e settantacinque, o sei bravo e grosso (non grasso, perchè lui, ripeto, è veloce).
Per essere grosso la palestra diventa un elemento fondamentale della preparazione atletica, così come le terapie di recupero, la dieta e la birra a fine partita. Farò un esempio cristallino: l'ala francese Christophe Dominici, 172cm per 82kg di peso, ritiratosi nel 2008, è l'esempio di come erano fisicamente i trequarti (i suonatori) vent'anni fa: veloci e sguscianti; ben diversi dai dei giocatori di oggi.
A fare da apripista il famoso Jonah Lomu, forse il primo giocatore di rugby "moderno", fisicamente parlando: stesso ruolo di Dominici, Lomu era 196cm per 130kg, capace di correre i 100 metri in tempi olimpici (poco sopra i 10 secondi). Pensate ad un treno lanciato a velocità supersonica che colpisce una carriola parcheggiata sui binari: quel treno era Jonah Lomu e i binari il campo da gioco; per fermarlo, nella finale del Campionato del Mondo 1995, il Sudafrica (poi campione) dovette impiegare tre uomini alla volta.
Lomu ha reso evidente che, per affrontare certi giganti, non si poteva solo pensare di placcare alle caviglie (che erano grandi come le coscie di un qualunque altro rugbysta), ma bisognava improntare la crescita delle nuove generazioni di rugbysti in modo differente, una sfida che l'Italia ha raccolto con colpevole ritardo: solo ora stiamo colmando un gap enorme, che porta a tutt'oggi i giocatori migliori ad andarsene all'estero; non esattamente una "fuga di cervelli" ma certamente la perdita di un patrimonio sportivo importante.
Il discorso per gli avanti (i trasportatori) è stato ben più complesso: vent'anni fa il tallonatore era un comodino dotato di braccia e gambe, dal peso necessariamente superiore ai 120kg e dall'altezza necessariamente inferiore ai 180cm, con orecchie "a cavolfiore", senza collo e due unici comandamenti: "vai dritto" e "spingi". Oggi è differente, il tallonatore anima la mischia nelle rimesse laterali, corre come le terze linee in difesa e deve necessariamente avere una fisicità differente da quella di qualche anno fa.
Stesso discorso per i piloni che non sono più quei frigoriferi ignoranti che passano il loro tempo ad incornare l'avversario, salvo brindarci insieme a fine partita. E' cambiato uno sport, radicalmente, e con lui sono cambiati i fisici delle persone che lo animano: si chiama evoluzione, e continuerà all'infinito.
Il bello è che c'è ancora qualcuno della "vecchia guardia", se non anagraficamente almeno fisicamente parlando, che pure ce la fa ancora. Ma quelli, amici miei, si chiamano casi straordinari.