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19/11/24 ore

Ucraina: dietro l’aggressione. Mancato Ordine Mondiale, dittature, debolezze occidentali. Conversazione di Giuseppe Rippa con Luigi O. Rintallo



Quando il presidente russo Putin ha aggredito l’Ucraina, in una guerra che non si deve chiamare guerra, nonostante le migliaia di morti, ma operazione militare, ha affermato che a seguito di una richiesta di assistenza da parte delle "autorità" di Donetsk e Lugansk, la Russia "cercherà la smilitarizzazione e la denazificazione dell'Ucraina" e "premerà per assicurare alla giustizia coloro che hanno commesso numerosi sanguinosi crimini contro civili pacifici, compresi cittadini russi”. 

 

Alla luce del massacro ancora in corso sul popolo ucraino la cosa appare addirittura incredibile… L’agenda dei fatti dopo più di un mese dall’inizio di questa tragedia ci descrive, giorno dopo giorno, i tentativi militari di una operazione non ancora chiarita e le ancora deboli azioni di trovare una via d’uscita a questo dramma pagato a caro prezzo da un popolo, ma anche da migliaia di militari russi non resi consapevoli degli obiettivi e dei rischi a cui erano stati mandati allo sbaraglio. 

 

Ma è evidente che al di là della inaccettabile aggressione dalle conseguenze tremende esistono antefatti che l’hanno determinata. Partono dalla caduta dell’impero sovietico e per sommi capi arrivano ai più recenti avvenimenti, che hanno riguardato nel 2008 in Caucaso la Georgia, ecc. e ancora più di recente l’annessione della Crimea (per i russi una “correzionedella storia), e da un risentimento russo… 

 

Esistono ovviamente altri fattori che si sono addensati. Dal mancato Nuovo Ordine Mondiale, che non si è provveduto a realizzare dopo la caduta del Muro di Berlino, al sempre più chiaro scenario in cui le “democrazie” autoritarie si sono proposte sulla mappa del mondo in modo potente e preoccupante, alla crisi dell’Occidente che trova l’Europa non realizzata (al di là delle spinte emozionali che si manifestano ogni qualvolta una drammatica vicenda come la pandemia o questa guerra sembrano dare l’illusione o la speranza di una nuova compattezza) sino alle tante identità degli Stati Uniti d’America, che rivelano un appannamento preoccupante. 

 

Di questi antefatti e della attuale situazione discute Giuseppe Rippa, direttore di «Quaderni Radicali» e «Agenzia Radicale», con Luigi O. Rintallo, redattore storico della rivista e della agenzia.

 

 

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Luigi O. Rintallo - La tragedia della guerra in Ucraina va affrontata entro la cornice della mancata definizione di un ordine mondiale alternativo a quello post-Jalta dopo il 1989. È il caso di riepilogare cosa ha comportato la fine del bipolarismo Est-Ovest e come tale fine non sia stata colta come occasione dall’UE, allora ai suoi esordi dopo gli accordi di Maastricht…

 

Giuseppe Rippa - Con il 1989 e il tracollo dell’Unione Sovietica viene meno il cosiddetto “bipolarismo coatto”, fondato su una stabilizzazione che nasceva dalla divisione del mondo in due blocchi, all’interno dei quali ogni superpotenza esercitava la sua funzione in qualche caso anche di tipo aggressivo. Per affrontare il tema di quale ordine mondiale possa delinearsi, bisogna rifarsi al passato e in particolare agli esiti di un’altra fondamentale cesura storica. Mi riferisco alla Prima guerra mondiale, che pose anch’essa fine all’ordine del mondo che sino allora si era basato sugli equilibri costruiti attorno ai grandi imperi europei. 

 

Da allora ebbe inizio la lunga scia di eventi che conduce alla catastrofe dei totalitarismi (comunismo, fascismo e nazionalsocialismo) e quindi alla Seconda guerra mondiale, con il suo tragico portato della persecuzione razziale e dell’olocausto degli Ebrei. L’agonia del Vecchio continente, iniziata con l’attentato di Sarajevo del 1914, prosegue durante i trent’anni di guerra civile fra Europei per sfociare appunto nell’ordine bipolare costruito a Jalta che vede l’Europa divisa in due, con la parte orientale sotto il controllo della Russia comunista.

 

Per quasi mezzo secolo dura la lunga traiettoria che stabilizza il mondo nel bilanciamento di forze fra Stati Uniti e Unione sovietica, dopo di che si è avuta l’incrinatura dovuta alla crisi strutturale dell’impero sovietico non più in grado di reggere coi suoi parametri il controllo di quella parte di mondo che era sotto la sua egemonia mantenuta in modo determinante da un punto di vista economico. 

 

L’abbattimento del Muro di Berlino è il momento emblematico di questa caduta, che conduce a una situazione particolare. Gorbaciov ratifica la crisi irreversibile dal punto di vista economico e istituzionale del sistema comunista e registriamo un tentativo di riconfigurazione della mappa del mondo. Deflagrata la presunta compattezza del regime di Mosca, si comprende come essa si doveva piuttosto alla compressione di un modello culturale che aveva agito su molteplici livelli: da quello nazionale a quello etnico o religioso.

 

L.O.R. - È in quell’arco di tempo, durante le trattative seguite al dissolversi della cortina di ferro nell’Europa orientale, che vanno ricercati i fattori all’origine dell’invasione dell’Ucraina. Il comportamento di Putin, nonostante sia stato descritto come frutto di patologie, in realtà risponde a una linea perseguita da tempo…

 

G.R. - Nella dinamica determinata dalla crisi dell’egemonia sovietica sui Paesi del Est Europa, la Confederazione russa subentrata alla vecchia URSS realizza una contrattazione con l’Occidente e, sia pure in una condizione di debolezza, ottiene un risultato che merita di essere sottolineato in quanto costituisce un antefatto del conflitto in corso in Ucraina. Mi riferisco al fatto che sul territorio ucraino esistevano molte basi di armamenti nucleari: l’esito delle trattative intercorse porta al loro trasloco entro i confini della Russia. Pertanto, dopo la frantumazione sovietica, l’Ucraina perde lo status di potenziale nazione confinante dotata di armi atomiche. E viene da pensare che se invece lo fosse stata, difficilmente sarebbe stata oggetto dell’attacco odierno. Di questo accordo non è data adeguata rilevanza in ambito informativo, ma è un fatto reale e importante che contrasta con la lettura fornita da Putin quando cerca una impossibile giustificazione all’attacco scatenato il 24 febbraio scorso.

 

Quando il leader russo evoca il tradimento di impegni presi con la controparte occidentale, si discosta dalle circostanze effettuali: al contrario, dalle vicende del Caucaso in avanti – dagli scontri in Georgia sino all’annessione della Crimea del 2014 – si evince che il disegno strategico di Putin intesse una trama volta a rioccupare i territori ex-sovietici, da lui iscritta nell’antico solco delle preoccupazioni russe a proposito delle zone di confine. La verità è che Putin vuole consolidare una visione espansionistica, pur non essendo supportato dai presupposti economici propri di una grande potenza visto che il PIL russo è inferiore a quello italiano.

 

Un indirizzo politico che si è proiettato su scenari di più ampio orizzonte: basti pensare al sostegno dato al massacratore Assad, nella guerra che ha devastato la Siria dove sono stati massacrati quei Curdi, abbandonati poi dall’Occidente, che si erano battuti contro l’ISIS del fanatismo islamico. Oppure alla competizione con la Cina, per il controllo del continente africano. Nonostante certa narrazione circolante in queste settimane, circa una presunta provocazione dell’Occidente all’origine della reazione russa, emerge insomma evidente questo disegno espansionista di Putin. Quanto poco aderente sia tale narrazione è provato dal fatto che la presenza di truppe NATO nella zona di confine si era ridotta da 350.000 a 70.000 unità circa, questo prima della occupazione della Crimea. 

 

L.O.R. - Oggi, da parte russa, personalità come il filosofo Dugin danno anche una coloritura ideologica alla guerra intrapresa: servirebbe a ostacolare la deriva nichilista. Lo stesso Putin vi ha fatto riferimento e, a mio modo di vedere, questo è preoccupante e non andrebbe affatto assecondato perché le guerre ideologiche sono destinate a essere infinite. 

 

G.R. - Quella di Putin è in effetti una strategia che combina le ambizioni nazionalistiche della storia russa con il disegno ideologico di cui si è fatto portatore, ad esempio, nel discorso al Forum di Valdai dell’ottobre scorso, che «Agenzia Radicale» è fra i pochi ad aver pubblicato integralmente in italiano (da Memri): nessuna rilevanza gli avevano attribuito i vari Soloni italiani di riviste e centri studi che oggi si alternano come “esperti” nei talk show televisivi. Insomma siamo passati dai virologi ai geopolitici con una spruzzata di massmediologi! 

 

Un pensiero che si avvale dell’apporto di filosofi e pensatori, che promuovono un’analisi culturale e geopolitica che si colora di accenti persino religiosi. Non a caso, infatti, nel discorso di Valdai Putin dichiara di voler comporre un polo da lui definito di “conservatorismo ottimista”, che dietro la volontà di contrapporsi alle forme di nichilismo denunciate nelle forme post-ideologiche del globalismo cela in sostanza una velleità di rivalsa aggressiva.

 

L.O.R. - È una strategia politico-militare che sembra leggere con gli occhiali del Novecento una realtà geopolitica che richiederebbe tutt’altro tipo di sensibilità. Come mai Putin ha optato per una scelta di questo tipo? 

 

G.R. - Questa presunzione di Putin è anche il prodotto delle debolezze dell’Europa e dell’Occidente nel complesso. Si è permesso che la Russia di Putin fosse l’unico erogatore di gas per una Europa priva di un piano energetico comune. Una situazione che l’Italia ha particolarmente in comune con la Germania, da tutti indicata come la locomotiva del continente europeo. 

 

Purtroppo, a suo tempo, si è trascurato di leggere come si doveva il passaggio dell’ex cancelliere socialdemocratico Schroeder nel consiglio di amministrazione di Gazprom, l’ente energetico di Stato della Russia di Putin. Si è sottovalutato cosa questo comportava, ma soprattutto evidenzia come l’Europa sia di fatto inesistente come “patria europea” quale soggetto capace di contribuire a delineare una nuova mappa del mondo dopo il 1989.

 

Questa permeabilità europea ha consentito la  penetrazione in profondità dei condizionamenti derivanti dalla Russia: penso al ruolo di tanti oligarchi dell’ex nomenklatura, che hanno agito come testa di ponte della politica di Putin. Le loro acquisizioni nei Paesi europei, forti del peso delle loro disponibilità finanziarie che si accompagnava al retaggio di un certo disprezzo verso il sistema di vita occidentale, hanno di certo favorito il disorientamento e forme conseguenti di cedimento da parte di molteplici soggetti politici ed economici dell’UE.

 

Con l’aggravarsi della crisi ucraina, l’Europa sembra apparentemente aver riguadagnato una vocazione di compattezza, anche se per ora a parole e sperando che non decida di non decidere. Staremo a vedere quale consistenza assumerà nelle prossime settimane, dopo l’ultimo Consiglio europeo e il G7. Ma la dipendenza energetica e la capacità di difesa rivelano che per ora sono obiettivi rinviati. Certo abbiamo avuto dei segnali abbastanza netti, con le decisioni sulle sanzioni per esempio. Resta il fatto che nessuno, a suo tempo, ha davvero coltivato un’apertura verso la Russia diciamo europea – per la quale solo vent’anni fa si era prospettato di attrarla nel G7+1 – ed è andata sfumando senza rimedio l’ipotesi di una Europa che ricostituisse l’unità culturale dei secoli passati, dall’Atlantico agli Urali.

 

L.O.R. - Intanto la guerra si prolunga e si stenta a vedere una soluzione politica…

 

G.R. - Siamo giunti a questa guerra che giudico un’autentica follia, originata dall’assurda convinzione di Putin di potere in pochi giorni riposizionare la situazione e costringere gli altri a doversi sedere intorno al tavolo per guadagnare nuovi spazi, dalla Crimea al Donbass (e forse anche altri verso il Mar Nero…). Fra l’altro, in queste settimane di conflitto, si è visto come proprio nella regione del Donbass – ritenuta vicina ai Russi – i punti di resistenza all’invasione sono i più intensi. Il problema è che i regimi di stampo autoritario, come la Russia e la Cina, hanno parametri diversi da quelli occidentali e danno priorità a una dimensione che poco considera le sofferenze delle persone. Ciò rende difficile di per sé il confronto. Lo fa comprendere bene Federico Rampini, quando afferma che l’atteggiamento di Putin è paragonabile al comportamento mafioso e di conseguenza non è affidabile. È una risposta a certo pacifismo nostrano, che insiste sulla necessità di mettersi attorno a un tavolo. In realtà sono i rapporti di forza che vengono a caricarsi di tutte le intensità che conosciamo.

 

D’altra parte, tutto quello che si poteva fare per non preparare un’agenda politica per fronteggiare la situazione è stato fatto e questo ha dato a Putin (pur con le molte contraddizioni interne alla sua gestione delle crisi) la convinzione che fosse giunto il momento di quest’azione offensiva. E che, paradossalmente, si sta rivelando dal suo stesso punto di vista disastrosa, perché le perdite subite dai Russi sono rilevanti: si parla di migliaia di soldati periti in battaglia.

 

Da quanto abbiamo detto è dunque chiaro ed evidente che quella di Putin è stata un’aggressione immotivata, se non dalla volontà di ripristinare un dominio anacronistico e lontano dai dati di realtà. 

 

L.O.R. - A dispetto di ciò permangono numerose aree di ambiguità tanto nei comportamenti degli Stati, quanto negli atteggiamenti assunti da politici e intellettuali. Ancora una volta è riemerso un anti-americanismo di fondo, che finisce per spendersi parecchio nel trovare giustificazioni all’aggressione russa. Il che produce anche effetti paradossali nello scenario politico italiano, con improvvisi cambi di parte in commedia…

 

G.R. - In Italia l’anti-americanismo trova le sue ragioni profonde nel retroterra di sub-culture che si alimentano da un lato del pacifismo dei “partigiani della pace” insediati nel PCI finanziato dai rubli sovietici e, dall’altro lato, dal risentimento nazionalista della destra. 

 

Ancora oggi, l’informazione ha dato centralità alle posizioni di un pugno di parlamentari fuoriusciti dai 5Stelle che prima propongono di affiancare l’audizione di Putin a quella del premier ucraino e poi fanno rimarcare la loro assenza quando Zelensky parla alla Camera. Purtroppo questo è il Parlamento che, non essendo stato consentito di andare al voto dopo la crisi di agosto 2019, mantiene una maggioranza relativa tra M5S ed ex 5Stelle: uno spazio enorme nel ventaglio dei nostri rappresentanti, che è del tutto privo di consistenza e significato in termini di incisività politica. Eppure, in televisione si è data l’idea che metà del Parlamento avrebbe rinunciato ad ascoltare il discorso del premier della nazione aggredita. 

 

Ciò dà il segno di quanto deformata sia la rappresentazione offerta dal nostro sistema informativo, che fa di tutto per impedire di acquisire dati di conoscenza che non siano inficiati dagli eccessi sia della retorica scioccamente bellicista, sia appunto di un anti-occidentalismo di maniera e marginalizza invece ogni possibilità di approccio nel senso del pragmatismo gradualista e improntato alla risoluzione politica delle crisi internazionali: è verso questo che si opera la vera censura, altro che verso la presunta “dissidenza” dei professori come Alessandro Orsini.

 

Tutto è riproposto sempre in una riduttiva ottica puramente strumentale. Deve far riflettere che, in questo momento così drammatico, un giornalista come Ezio Mauro non trova di meglio che andare in tv da Lucia Annunziata (la stessa che in un fuorionda manifestava la sua dose di pregiudizi verso gli Ucraini, a suo dire dediti solo a essere camerieri e badanti) per esortare a indagare sugli “amici di Putin in Italia” come Berlusconi e Salvini. Noi per primi siamo convinti che la vicinanza a un dittatore come Putin è dimostrazione di bestialità politica, ma va evidenziato che in Parlamento tutto il centro-destra, compresa la forza di opposizione dei Fratelli d’Italia, si è allineato sulla condanna all’invasione russa, mentre invece i distinguo sono venuti dai residui dei 5Stelle. Proprio quei 5Stelle su cui il segretario del PD, Enrico Letta, punta in modo massiccio per costituire quel “campo largo” che dovrebbe garantirgli di conquistare il governo alle prossime elezioni politiche.

 

Giuseppe Conte, presidente del M5S, alla disperata ricerca di darsi un profilo, si oppone all’aumento delle spese per la difesa e richiama la vocazione pacifista dell’Italia. Pannella, nonviolento e gandhiano, ispiratore della lotta per l’obiezione di coscienza, definiva il pacifismo la “peste del secolo”. Di recente un articolo di Angelo Panebianco ha spiegato cos’è il pacifismo: oltre a quello ingenuo e puro, vi è un pacifismo opportunista senza capo né coda, ma entrambi danno il via libera alla violenza dei prepotenti. Il pacifista ingenuo crede che l’uomo sia per natura buono e pertanto non è possibile avere nemici. Ma i nemici ci sono eccome e di questo è ben cosciente invece il nonviolento. Il  nonviolento sa che nell’animo umano c’è la violenza e la contrasta, vi si oppone con la lotta attraverso un percorso che agisce sulla responsabilità delle singole persone oltre che attraverso l’azione delle istituzioni.

 

La mancanza di un esercito comune europeo ha comportato che non ci fosse alcuna azione di deterrenza rispetto all’aggressione di Putin. In questo momento particolare, opporsi al potenziamento della difesa in Europa aumenta anziché ridurre le possibilità del ripetersi di conflitti armati. E lo dico da obiettore di coscienza, nonviolento e antimilitarista...

 

L.O.R. - Resta il fatto che anche l’Occidente è portatore di contraddizioni irrisolte e che l’UE è ben lontana dall’esercitare un ruolo di peso nel contesto internazionale. Il peso di tali contraddizioni deriva dalla marginalizzazione della dimensione politica, come pure dall’aver lasciato sguarnita la difesa delle libertà su cui l’Occidente si è definito nel corso della storia…

 

G.R. - Di fronte alla guerra in corso, stiamo scontando tutte le contraddizioni che attraversano l’Occidente nel suo complesso. Contraddizioni che sommano l’ambiguità tedesca nel rapporto con i Russi, come pure la latitanza di una politica estera comune che sinora è stata sostituita dalle iniziative spesso improvvide della Francia, come è accaduto in Libia. Tuttavia, dobbiamo anche evitare di destrutturare totalmente principi e valori della democrazia liberale. Che l’Occidente viva una crisi interna, dovuta al disorientamento e alla confusione di quello che taluno definisce “progressismo nichilista”, non può certo significare dare credito alla versione promossa dai tradizionalisti suggeritori di Putin: altrimenti dovremmo ammettere l’esistenza di una tentazione che attrae verso il dispotismo di natura autoritaria.

 

A mio avviso è una strada che possono intraprendere solo le componenti mediocri di una classe dirigente, che vivacchiano dentro il parassitismo assistenziale e gli avanzi dei risentimenti post-ideologici, a destra come a sinistra. Il punto fondamentale della crisi dell’Occidente sta piuttosto nel fatto che lo stesso Occidente non ha creduto davvero alle sue ragioni culturali, che sono poi anche ragioni di tolleranza, di apertura di dialogo e di nonviolenza che va interpretata come predisposizione di natura strategica dell’agire politico.

 

Nei modi in cui va dipanandosi la narrazione di queste vicende, emergono ancora una volta i caratteri strutturali dell’assassinio dei filoni culturali nonviolenti, riformatori e liberali a difesa dello Stato di diritto. Sono filoni che iscrivono l’esercizio del diritto nella ricerca disperata dei luoghi del confronto e che, purtroppo, da tempo sia in Italia che in Europa trovano sempre meno ascolto e spazio nel dibattito pubblico.

 

 

 

 


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