È iniziato cinque giorni fa e per il momento sembra che le fiamme siano state dominate. Tuttavia non si sa ancora come e dove andrà a finire. C’è chi parla di “eshtifada” (in ebraico esh vuol dire fuoco) o “intifesh” (giocando sulle parole intifada, esh e tipesh, stupido in ebraico) e c’è chi ancora non si sbilancia e avanza tante altre ipotesi. I fatti comunque sono questi: 630 incendi scoppiati un po’ ovunque in tutto il nord e al centro, nelle zone intorno a Gerusalemme (dove risiede gran parte della popolazione israeliana).
In media circa 200 focolai al giorno con un decremento durante il fine settimana, tra venerdì e sabato, a 186; 12 quartieri (60.000 abitanti circa) di Haifa totalmente evacuati, 2000 i pompieri coinvolti nel servizio di spegnimento e contenimento, 450 membri di unità di salvataggio e pronto soccorso dell’esercito israeliano e 69 soldati ciprioti; 180 persone ricoverate per problemi respiratori, 53 i feriti; 560 case e 7400 acri di parco boscoso andati completamente in fumo e altre centinaia di migliaia di abitazioni colpite o parzialmente bruciate; 490 milioni di Euro di danni; 500.000 tonnellate di liquidi e materiale bloccafuoco lanciati con aerei in 480 villaggi; 40 persone arrestate di cui 18 arabi israeliani (3 sono studenti dell’università di Haifa), 20 palestinesi e un giovane ebreo che ha incitato in internet ad incendiare i villaggi arabi in reazione a quanto sta succedendo.
I sospetti di un nuovo attacco da parte palestinese sono molto forti, è già stato provato che numerosi focolai sono di origine dolosa, altri, pochi, potrebbero essere dovuti alla siccità e al forte vento che soffia dal deserto. Non è nemmeno escluso che alcuni dei piromani possano essere estremisti ebrei, ma per il momento nessuno di loro è sospettato. I festeggiamenti da parte araba non si sono fatti attendere, soprattutto da parte di membri di Hamas, che sui social network hanno pubblicato canzoni inneggianti al fuoco, invitando tutti i paesi vicini ad Israele ad inviare “aerei pieni di benzina da far piovere sulle zone in fiamme” ed esprimendo il desiderio di “respirare l’odore di barbecue dei sionisti”.
Le testimonianze di chi è riuscito a fuggire appena in tempo sono agghiaccianti. Scrive un’italo -israeliana sulla sua pagina facebook: “… abbiamo vissuto attimi d’inferno. Giovedì notte l’incendio è arrivato fino da noi… siamo dovuti fuggire tutti in piena notte in pigiama, non abbiamo avuto tempo di prendere nulla. Siamo scappati a piedi… il fumo ci stava soffocando… dei vicini ci hanno poi caricato in macchina con loro (eravamo in 8, uno sull’altro). L’incendio in pochi secondi si è diramato ovunque a causa del fortissimo vento che lanciava scintille in tutte le direzioni. Le fiamme erano alte 20 metri, a distanza di pochi secondi alberi secchi si accendevano da tutte le parti. Tutte le macchine erano bloccate fra le fiamme e non sapevamo se saremmo riusciti ad uscire vivi da quell’inferno. Abbiamo visto la morte davanti ai nostri occhi, siamo infine riusciti a passare tra le fiamme e a fuggire e metterci in salvo. Un incubo. Io sono ancora sconvolta e mi ci vorrà un po’ per riprendermi dal trauma”.
Un’altra racconta: “La sensazione di frustrazione è tremenda! Abbiamo uno degli eserciti più forti del mondo, ma purtroppo è iniziata la "Eshtifada" = "Intifada del fuoco". 230 incendi nel giro di 3 giorni. Nessuno sa dove scoppierà il prossimo.....
Evacuati interi quartieri, tutti senza elettricità, centinaia di persone ricoverate con problemi respiratori e soprattutto la frustrazione perché non si sa come bloccare il fuoco che con l'aiuto dei venti fortissimi viene alimentato senza fine. E con tutto ciò vedo una tranquillità, una mancanza di panico, gente che si preoccupa, telefona, offre aiuto agli altri. Arrivati questa mattina aerei di soccorso dalla Grecia, Cipro, Turchia, Croazia. Dall'Italia e Russia atterrati adesso. Domani arriverà un Supertanker dagli Usa”.
“Non ho mai visto la mia città in una condizione simile”, ha commentato il sindaco di Haifa Yona Yahav, che ha parlato di una “tragedia senza eguali”. Mentre sarcastico è stato il commento di un altro italoisraeliano sempre su Facebook: “L'ipotesi di bruciare un paese come forma di protesta nazionalista ricorda quel tale che si evira per punire la moglie”.
Tra le case perdute, c’è anche quella della 78enne Abigail Ben Nun di origine belga, scampata alla Shoà che ha visto andare in fumo anche tutti gli effetti familiari (foto, diari materni, ecc.) che erano riusciti ad essere strappati dalle grinfie naziste.
Netanyahu ha telefonato a Mahmud Abbas e il presidente Rivlin ad Erdogan per ringraziare degli aiuti ricevuti. Otto unità di pompieri palestinesi, infatti, sono intervenute a fianco dei loro colleghi israeliani. Altri otto Paesi, tra cui anche l’Italia, hanno inviato materiale e attrezzature.
La presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, in un comunicato ANSA ha così espresso la preoccupazione insieme alla gratitudine per il pronto intervento del nostro Paese: "Ogni palmo della terra di Israele è stato coltivato con amore e attenzione. Ogni centimetro conteso, ogni appezzamento minacciato dal pericolo. Esprimiamo la nostra vicinanza a tutta la popolazione di Israele e il sentimento di dolore dinanzi agli incendi che continuano a divampare e minacciano la popolazione civile e il duro lavoro compiuto in tanti anni di sacrifici. Denunciamo - prosegue Di Segni - prima di tutto una siccità di valori dimostrata da chi compie questi gesti e al contempo affermiamo di nuovo la rigorosità delle nostre capacità e speranze. Ma diciamo anche grazie a chi si è mobilitato per evitare il peggio e per lenire le ferite e diciamo grazie in primo luogo all'Italia, uno dei pochi, pochissimi paesi ad aver offerto prontamente supporto".
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