L'Unesco approva una nuova risoluzione su Gerusalemme: il documento, che nega ancora il legame tra gli ebrei e i luoghi sacri della città, è passato con dieci voti a favore, due contrari e otto astenuti e ha provocato l'immediata risposta del premier israeliano Benjamin Netayahu, pronto a richiamare l'ambasciatore. Tra le reazioni indignate, spicca quella del presidente della KnessetYuli Edelstein, il quale ha chiesto l'intervento della Santa Sede in una lettera al Segretario di Stato vaticano, sottolineando che il testo è "un affronto per i cristiani e per gli ebrei" ed il Vaticano dovrebbe "usare i suoi migliori uffici per impedire il ripetersi di sviluppi di questo tipo".
L'Italia, dopo la brusca marcia indietro dei giorni scorsi in cui il presidente Renzi ha definito “assurdo” il voto precedente sull'analoga risoluzione, ha annunciato che voterà no in aprile attraverso il ministro degli esteri Paolo Gentiloni: "Se le stesse proposte ci saranno ripresentate ad aprile il governo italiano passerà dall'astensione al voto contrario. La risoluzione si ripropone due volte l'anno dal 2010. Dal 2014 contiene le formulazioni che negano le radici ebraiche del Monte del Tempio".
Ma il problema è che alla posizione del governo corrisponde un clima intellettuale e politico che è caduto nella trappola della questione palestinese senza considerare che, a prescindere da ogni posizione in merito alle istanze che sottendono alla proposizione del documento, strumentalizzare la religione e la cultura a fini politici è e resta comunque un atto sconsiderato e pericoloso, oltre che un grave precedente.
Tra le rare eccezioni stavolta vi è proprio il responsabile della Farnesina, secondo il quale occorre “lavorare affinché l'Unesco faccia l'Unesco. Non c'è dubbio che si tratti di una delle organizzazioni Onu che ha un ruolo importante, soprattutto per noi che abbiamo molti siti patrimonio dell'umanità. Ma non si può accettare l'idea che invece di concentrarsi sul patrimonio culturale diventi cassa di risonanza di tensioni politiche”.
Siamo erroneamente abituati a pensare Gerusalemme unicamente come un teatro di tensioni, ma non è così. Ne è una prova la protesta che seguì alla decisione del ministro dell'educazione israeliano di vietare la diffusione del libro Borderlife di Dorit Rabynian, che racconta la storia d'amore tra un'israeliana e un palestinese ambientata a New York. Anche in quel caso un intervento invasivo sul piano culturale alimentava le divisioni, con la notevole differenza che a farlo era il ministero di un governo e non un'organizzazione delle Nazioni Unite.
Le reazioni furono i baci di protesta tra ebrei e arabi, coppie etero e coppie gay, diffuse da Time Out Tel Aviv: lo spunto fu colto nello scorso aprile dal programma Protestantesimo, forse l'unica trasmissione della TV pubblica che dedica sistematici approfondimenti al dialogo religioso e culturale. Nel servizio gli intervistati, sia ebrei che arabi, ribadivano la necessità di continuare a stare insieme e ritenevano possibile amarsi oltre ogni difficoltà, come nel racconto della Rabynian.
L'approfondimento si concludeva all'interno della comunità Nevé Shalom – Wahat as-Salam, “Oasi di pace”, fondata dal frate domenicano Bruno Hussar, in cui convivono famiglie arabe ed ebree per mostrare come sia possibile vivere insieme e trovare una via pacifica per la risoluzione del conflitto. Quale è il messaggio che l'Unesco sta dando a queste persone? Che il Monte del Tempio appartiene ai soli arabi, che è conteso o che è lecito utilizzarlo a fini politici?
La risoluzione interviene a gamba tesa in un cammino che uomini e donne di coraggio stanno conducendo affinché i luoghi sacri siano oggetto di condivisione e non di tensioni. Ai bambini di Nevé Shalom viene insegnato a leggere e scrivere sia in ebraico che in arabo e i piccoli, a detta dei loro docenti, apprendono in poche settimane: speriamo che anche l'Unesco impari a scrivere le denominazioni dei luoghi sacri in entrambe le lingue.
Camillo Maffia
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