Si avvicina la Conferenza di Parigi sul clima (30 novembre - 11 dicembre), dove ben 190 capi di stato e di governo di tutto il mondo cercheranno di trovare un accordo per limitare l'aumento della temperatura a livello globale nei prossimi decenni. Degli obiettivi dichiarati, delle diverse posizioni in campo, e delle possibilità che il negoziato raggiunga un esito positivo, si è parlato in un convegno organizzato dall'università Luiss Guido Carli, in collaborazione con l'Istituto Affari Internazionali e la Fondazione Eni Enrico Mattei (qui il programma con tutti gli ospiti).
L'obiettivo-cardine resta quello individuato ormai dagli scienziati di tutto il mondo, ossia di evitare un aumento della temperatura globale superiore a 2 gradi entro la fine del secolo. I paesi che parteciperanno alla Conferenza hanno già espresso i propri impegni con l'adozione dei cosiddetti "contributi nazionali" (INDC), cioè dei piani nazionali per la riduzione delle emissioni di gas serra.
Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno già previsto un taglio delle emissioni del 26-28% nel 2025 rispetto al 2005, l'Unione europea ha voluto prendere un impegno più deciso (riduzione del 40%, rispetto però al 1990), mentre la Cina ha delineato una riduzione delle sue emissioni di addirittura il 60-65% entro il 2030 (rispetto al 2005).
Ma al di là dei buoni propositi, la domanda che aleggia con preoccupazione attorno alla prossima Conferenza sul clima - e di conseguenza anche nei dibattiti "preparatori" come quello organizzato dalla Luiss - è se i paesi, alla fine, riusciranno a raggiungere un accordo giuridicamente vincolante, e ad evitare così che si sbandierino, come al solito, obiettivi molto promettenti poi rimessi, però, alla "buona volontà" dei vari paesi. Piuttosto, dunque, che concentrarsi sulle diverse percentuali, statistiche e stime, appare più utile osservare come i paesi stanno mostrando di voler affrontare l'appuntamento di Parigi e la sfida al cambiamento climatico.
Così, se la politica energetica degli Usa - come evidenziato dalla prof.ssa Francesca Sanna Randaccio (Sapienza-Luiss) - continua ad apparire poco convincente (nel piano nazionale, ad esempio, non vi è alcuna menzione delle fonti di energia rinnovabili, né soprattutto del loro utilizzo obbligatorio), audace risulta essere invece l'approccio manifestato di recente dalla Cina, che fino ad oggi si era tirata fuori da ogni genere di vincolo in tema di emissione di gas serra.
A spiccare non è solo l'accordo stipulato tra il presidente cinese Xi Jimping ed Obama nel novembre del 2014, con il quale la Cina si è impegnata per la prima volta a ridurre le emissioni di gas serra nei prossimi anni, ma anche la convinzione con cui, in vista della Conferenza di Parigi, il governo cinese si è espressa in favore della definizione di un accordo "ambizioso" e - chissà - forse anche giuridicamente vincolante.
I critici ribattono che l'improvvisa "svolta energetica" della Cina sarebbe dettata da un mero approccio utilitaristico, cioè dalla volontà di soddisfare semplicemente interessi personali (tra tutti, la riduzione del numero - astronomico - dei decessi causati da inquinamento), ma come ha notato la professoressa Christine Bakker (Luiss-Roma Tre) con molto realismo, se per una volta questi interessi personali finiscono per coincidere con quelli comuni di tutti gli altri paesi, allora un impegno cinese in materia ambientale non può che essere accolto positivamente.
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