Il nuovo governo egiziano sta varando misure autoritarie con una frequenza ed un'estensione mai raggiunte persino durante il regime dittatoriale di Mubarak. E' questo l'allarme lanciato sul Guardian da diverse personalità del mondo accademico e giuridico egiziano.
Dal colpo di stato militare che nel luglio 2013 destituì Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani e primo presidente eletto democraticamente in seguito alla fine del regime di Mubarak, i successori alla presidenza Adly Mansour e Abdel Fatah al-Sisi hanno approfittato dell'assenza di un parlamento eletto per attuare in via unilaterale provvedimenti che limitano fortemente la libertà di espressione, di associazione e di protesta, espandono oltremodo i poteri delle autorità militari e la giurisdizione delle loro corti, reistituiscono il corpo di polizia segreta e facilitano ogni forma di repressione del dissenso.
Una vera e propria stretta autoritaria, più grave persino delle restrizioni anti-democratiche conosciute ai tempi dei regimi di Sadat e Mubarak, quando un passaggio in Parlamento di queste misure, perlomeno, avveniva. Nel nuovo Egitto, invece, dopo lo scioglimento del 2012, un parlamento neanche esiste. Al suo posto una roadmap fatta solo di rinvii: le nuove elezioni avrebbero dovuto tenersi entro la fine del 2013, poi nel luglio 2014, e ora l'impressione è che nulla accadrà prima della prossima estate (salvo ulteriori posticipazioni).
L'Egitto, in altre parole, è ripiombato nel terrore. Un terrore, però, che come spesso accade tende a facilitare la stabilità del Paese, e per questo induce a non intervenire i leader delle grandi potenze mondiali, interessati più che altro a mantenere in vita un interlocutore effettivo in Medio Oriente. Così finiscono per passare quasi in sordina notizie come la messa al bando del gruppo dei Fratelli Musulmani, ora in clandestinità come ai tempi della repressione di Nasser, o la condanna a morte di 188 manifestanti pro-Morsi (dopo gli addirittura 683 dello scorso aprile).
Insomma, pur di veder garantito un livello minimo di stabilità in Egitto, le grandi potenze sembrano disposte ad ignorare la costante violazione dei diritti umani. Salvo isolati e timidi appelli, l'Ue tace, nonostante la nomina del nuovo Alto rappresentante della politica estera (la nostra Federica Mogherini). L'Italia non fa da meno, sottolineando - come ha fatto Renzi un mese fa incontrando proprio il presidente al-Sisi - l'importanza strategica dell'Egitto nella lotta all'immigrazione clandestina.
Gli Usa, che all'inizio della primavera araba tentennavano di fronte al rischio di sacrificare la stabilità per maggiore democrazia ("Se salta Mubarak cade il Nord Africa" era lo spirito), con l'attenuazione (forzata) delle spinte rivoltose preferiscono ora voltare lo sguardo altrove. Ad indurre Obama al silenzio gioca un ruolo anche il favore espresso da Israele per la svolta (seppur autoritaria) di al-Sisi, in virtù della rottura di quest'ultimo con Hamas (legato al movimento dei Fratelli Musulmani) e l'abbandono delle tendenze islamiche più fondamentaliste. La primavera araba, intanto, ha lasciato posto ad un freddo e tagliente inverno.
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