Nonostante le improvvise fibrillazioni delle ultime ore, alla fine l'esito del referendum sull'indipendenza della Scozia è stato il più sperato: il Regno resta Unito. Brinda il premier David Cameron, riuscito ad evitare l'ennesimo scossone alla sua già traballante leadership, e con lui brindano i mercati, l'Ue, e i numerosi paesi del continente alle prese con intramontabili e, anzi, crescenti, spinte secessioniste. Ma a parte un'unica certezza, quella dell'unità, i voti dei poco più di 4 milioni di scozzesi portano con sé non pochi interrogativi.
Interrogativi, innanzitutto, sul futuro stesso del Regno Unito. Cameron dovrà ora tenere fede alle promesse fatte nell'ultima settimana − quando il sorpasso indipendentista nei sondaggi aveva gettato nel panico l'establishment britannico − incentrate su un forte programma di devolution, con il riconoscimento di nuovi poteri al parlamento scozzese, soprattutto in materia di tasse, spesa pubblica e welfare.
Chiusa una partita, dunque, se ne apre un'altra, e a giocare non saranno solo Londra ed Edimburgo: "Così come gli scozzesi avranno più poteri sulle loro questioni − ha dichiarato Cameron dopo la vittoria del 'No' −, così anche l'Inghilterra, il Galles e l'Irlanda del Nord devono avere maggiore voce in capitolo nelle loro". Ad essere ridefinito, insomma, sarà l'intero assetto costituzionale del Regno Unito.
L'idea di Cameron sarebbe quella di concordare un progetto di devolution entro novembre, per poi farlo sbarcare alla Camera dei comuni all'inizio del prossimo anno, e attendere tuttavia l'elezione del nuovo parlamento britannico (maggio 2015) per vedere l'approvazione definitiva della riforma. Non tutti gli attori politici, comunque, condividono il piano delineato da Cameron, e c'è chi, come il leader laburista Ed Miliband, aspira ad esempio all'istituzione di una convention costituzionale.
Ecco, appunto, i Labour. Nonostante alcuni proclami sulla presunta rivincita laburista, ottenuta dall'ex primo ministro Gordon Brown (che, con la sua discesa in campo, ha certamente contribuito a ricompattare il fronte unionista), è indubbio che il partito guidato da Miliband sia uscito dal voto in Scozia (suo storico bacino di voti) piuttosto acciaccato. E l'avvicinamento alle istanze degli indipendentisti, con la proposta della convention, rappresenterebbe solo un tentativo di recuperare un elettorato ormai disaffezionato.
A preoccupare non sono solo i numeri (a Glasgow, principale città scozzese e un tempo roccaforte della sinistra, gli indipendentisti hanno raggiunto il 53%), ma lo stesso radicamento socio-politico del Labour Party nell'area, se è vero, come sembra, che a votare per il 'Sì' siano state soprattutto le fasce operaie, a differenza del 'No', che avrebbe attratto in particolar modo il voto della classe media.
Il risultato del referendum scozzese, come dicevamo, spinge ad un sospiro di sollievo molti altri paesi alle prese con sempre più agguerriti movimenti indipendentisti, primi fra tutti quelli catalani in Spagna e quelli fiamminghi in Belgio. Proprio in Catalogna si terrà, il prossimo 9 novembre, il referendum per l'indipendenza dalla Spagna: una consultazione non riconosciuta dal parlamento nazionale né dalla Corte costituzionale, e dunque formalmente non vincolante, ma che sicuramente non mancherà di suscitare polemiche a livello europeo ed internazionale.
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