Tre o forse quattro giorni per una tregua umanitaria. Si è giunti a questo risultato in seguito all’accordo concluso lo scorso 6 febbraio fra il governatore di Homs e il rappresentante delle Nazioni Unite in Siria. A darne notizia è la Bbc, ma non c’è certezza neppure sulla durata dell’interruzione dei combattimenti.
Lo scorso venerdì è iniziata così l’evacuazione per circa 83 persone che hanno lasciato Homs: donne, bambini e uomini oltre i 55 anni, mentre quelli al di sotto di questa soglia di età e fino al limite minimo di 15 anni, sono stati esclusi perché tra loro potrebbero insinuarsi dei terroristi, secondo quanto predeterminato dalle autorità governative.
La tregua in cui ormai sembrava impossibile poter credere si concretizza nell’ingresso di convogli delle Nazioni Unite e della Mezzaluna Rossa che trasportano viveri, medicinali, vestiti e beni di prima necessità. La città di Homs si trova a metà strada tra la capitale, Damasco, che sta a sud e Aleppo a nord, inoltre non è lontana dal confine con il Libano. I combattimenti l’hanno in gran parte distrutta e in seguito all’assedio da parte del regime, nel giugno 2012, i ribelli si sono rifugiati al centro della città, nella sua parte vecchia.
Il New York Times riporta il numero di circa 2500 civili rimasti bloccati all’interno. Eppure, l’organizzazione Mezzaluna Rossa e l’emittente BBC rendono noto che i convogli delle Nazioni Unite e il personale impegnato nel dispiegamento degli aiuti sono stati presi di mira attraverso colpi di arma da fuoco. Le parti del conflitto si accusano a vicenda e si teme per il prosieguo degli interventi umanitari.
Proprio lo scorso 3 Febbraio a Roma, durante la riunione del Gruppo di lavoro sulle sfide umanitarie della crisi siriana, presso la Farnesina, è stata nuovamente ribadita l’urgenza delle condizioni in cui versa la popolazione siriana. Valerie Amos, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari e coordinatore dei soccorsi d’emergenza, ha parlato di “7 milioni di persone che si trovano in un’area del Paese di difficile accesso per gli aiuti umanitari e fra loro 250.000 sono in zone assediate o sottoposte a blocchi da parte del governo o da parte delle forze dell’opposizione”.
Sono queste le cifre di un conflitto per il quale ancora una volta il dialogo politico e le questioni umanitarie si sovrappongono: l’incapacità risolutiva del primo si traduce nella moltiplicazione infinita di vite in sospeso e che dipendono da decisioni ancora inconsistenti.
Uno stallo deleterio in cui si è precipitati, l’unico reale risultato di quei negoziati di Ginevra 2 che gli Stati Uniti in primis avevano decantato come la vera soluzione. Proprio il segretario di Stato americano John Kerry ha riconosciuto, davanti ai Congressisti nei giorni scorsi, il fallimento della politica americana nei confronti della Siria. Non si è giunti all’affermazione di un governo di transizione che potesse soppiantare quello di Assad e la consegna delle armi chimiche da parte del regime si è ridotta finora al 4% della fornitura dell’intero arsenale.
Nel frattempo avanza in maniera sempre più solida la minaccia di estremisti radicali e di gruppi islamisti nel fronte dell’opposizione al regime. Queste derive rappresentano un baratro anche per i Paesi limitrofi come Turchia, Giordania, Libano, parti di un'intera regione che ha raggiunto il limite nella capacità di accoglienza e sostegno per la popolazione che in questi anni è riuscita a oltrepassare i confini della Siria.
E’ così che risuonano incredibilmente le parole di Lakhdar Brahimi, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Conferenza di Ginevra 2, che ha dichiarato falliti i negoziati di gennaio perché non hanno condotto all’affermarsi del governo di transizione, né hanno permesso l’apertura di corridoi umanitari sul territorio siriano.
Una situazione che fa ricadere su tutte le Nazioni partecipanti la responsabilità di ciò che sta accadendo e che non esclude nessuna per incapacità, agli occhi del popolo siriano e dell’opinione pubblica mondiale.
E’ necessario trovare una spiegazione e una risposta all’interrogativo immutabile e pericoloso che accompagna i negoziati di Ginevra 2: proprio lunedì prenderà il via la loro seconda fase, nell’incessante e improrogabile attesa, sotto una coltre di sfiducia e di speranza.
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