Il cemento divora gli alberi e con essi l'ossigeno. Erdogan divora la laicità, e con essa la libertà. Quarto giorno di scontri, in Turchia, e migliaia di cittadini continuano a riversarsi per le strade in diverse città del Paese. Quello che è chiaro, ormai, è che non è più - non è unicamente - la distruzione di uno dei pochi parchi rimasti a Istanbul ad aver innescato la rivolta dei giovani (e non solo), prontamente definita dalla stampa internazionale come la 'primavera turca'.
235 manifestazioni, 67 città coinvolte, 1700 arresti, circa 400 feriti, un morto: sono questi i numeri della rabbia esplosa nei confronti della maggioranza islamica rappresentata da RecepTayyip Erdoğan e dal suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), ininterrottamente e regolarmente al potere dal 2002 col sostegno della maggioranza della popolazione.
“Dittatore” urlano le piazze verso colui che è oramai considerato una seria minaccia per una democrazia – quella turca – che sta vivendo da almeno dieci anni quel boom economico auspicato da Kemal Atatürk, fondatore di una repubblica laica, secolarizzata, progressista.
Il premier è accusato dal suo popolo di voler attuare una violenta re-islamizzazione del Paese, perseguita attraverso il soffocamento di ogni forma d'opposizione e un autoritarismo estremo: il conservatorismo incarnato dalla lotta ad alcuni simboli della modernità, quali l'aborto, il rifiuto del velo, la libertà di espressione e il consumo di alcol, ha avuto come conseguenza la ribellione di quella parte del Paese fermamente convinta della necessità di una netta separazione tra religione e stato.
Soprattutto in nome di quella aspirazione europeista che permea gran parte della società turca di impronta laica: la guerriglia urbana di queste ore a Istanbul, Ankara, izmir e in molte altre località rappresenta dunque il tentativo di arginare una deriva tradizionalista e antilibertaria in una strenua difesa di quei diritti fondamentali garantiti dalla costituzione voluta da Atatürk e motore propulsivo della crescita che il Paese ha vissuto negli ultimi decenni.
Quello che è certo è che non è attribuendo a Twitter - “vera minaccia per la società” - la responsabilità dei disordini o autorizzando il lancio di spray al peperoncino e gas lacrimogeni contro i civili che Erdoğan riuscirà a promuovere quel dialogo fondamentale per una democrazia sana che non teme il vento caldo di una nuova 'primavera'. (F.U.)
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